[Il ritratto] Il tormento e la solitudine di Mattarella per il bivio dell’Italia. Sulle sue spalle l’eredità Dc e la guerra (e poi la tregua) con Berlusconi
Porta il suo nome l’unica legge elettorale decente varata con la fine della Prima Repubblica, la legge Mattarella, chiamata Mattarellum dal politologo Sartori. Fu impiegata nel 1994, nel ‘96 e 2001. Premiava solo le coalizioni, è vero. Ma adesso, se fossimo andati a votare con una legge così, almeno sapremmo già come sarebbe il prossimo governo. E il Presidente non avrebbe avuto bisogno di appellarsi alla responsabilità dei partiti.
Niente fa più rumore del silenzio di Mattarella. Il tormento del Presidente è una voce che attraversa le stanze dei partiti, le loro strategie, gli annunci e le promesse, le lusinghe e i rifiuti. Dopo che il voto ha scelto due vincitori e nessuna maggioranza, tocca a lui sciogliere i nodi per la formazione di un governo che guidi il Paese fuori dalle sacche di una crisi istituzionale. Ma il Capo dello Stato è solo, e lo sa benissimo. Attorno a lui ci sono vincitori che aspettano trionfalmente gli sconfitti dall’altura del loro successo, e i perdenti che rialzano orgogliosamente la testa, dicendo no a tutto. Una sola volta, Segio Mattarella ha parlato, alla festa della donna, quando ha detto che «bisogna avere senso di responsabilità, pensare al bene dei cittadini», spinto controvoglia a intervenire dalle fibrillazioni e dalle incertezze che stanno attanagliando il pd, prigioniero com’è della sua disfatta elettorale. Ma poi è tornato subito nel silenzio del suo tormento.
Non è un mediatore, cauto ma deciso
Per muoversi, non gli resta che aspettare l’unica cosa possibile, che vengano ammainati i vessili di guerra e i proclami di vittoria e di vendetta, nella speranza che nel frattempo il partito democratico, orfano di Renzi, ritrovi al più presto una bussola. Fino allora farà come ha fatto tante altre volte, perchè se c’è una cosa che caratterizza da sempre il percorso politico del Presidente è che parla poco. Molto poco. Ma quando lo fa, non parla soltanto. Agisce. Lui è l’uomo che scelse Leoluca Orlando come sindaco nel nome della Primavera di Palermo, ed è il ministro che si dimise per protesta contro il provvedimento sul riordino del sistema televisivo che avrebbe favorito troppo Berlusconi. Dietro la signorilità siciliana che lo contraddistingue, è un giurista molto attento a quel che dice, cauto, ma deciso. Non è un mediatore. Raccontano di lui che «quando c’era da prendere una decisione in camera di consiglio era irremovibile».
Si è sempre attenuto ad una regola: tacere
Così, nei giorni in cui il suo nome cominciava a circolare come il pretendente più forte per il Quirinale, aveva preferito tacere, nonostante le pressioni dei suoi Grandi Elettori. E si è attenuto a questa regola anche dopo quell’elezione, che fu la pietra tombale del Patto del Nazareno. Lo ha raccontato Matteo Renzi nel suo libro, spiegando che quell’accordo non prevedeva il voto sul Presidente della Repubblica, ma che si ruppe lo stesso nel momento in cui decise di eleggere Mattarella senza i voti di Forza Italia: «Berlusconi mi chiese un incontro, alla fine del gennaio 2015, che resterà, ma allora io non potevo saperlo, l’ultimo per anni». Il cavaliere arrivò accompagnato da Gianni Letta e Denis Verdini. Si sedette e gli comunicò senza tanti giri di parole di aver già concordato il nome del nuovo presidente con la minoranza pd: «Mi dice di aver ricevuto una telefonata di D’Alema, di aver parlato a lungo con lui e che adesso io non devo preoccuparmi di niente, "perché la minoranza del pd sta con noi e te lo garantisco". Te lo garantisco?». Renzi non fa il nome. Ma ormai lo sappiamo tutti: era Giuliano Amato, «personalità di indubbio valore e qualità», ma difficile da far digerire ai parlamentari e al Paese, secondo l’allora premier.
Quell'accordo prendere o lasciare tra Berlusconi e D'Alema
La cosa che lo lascia più allibito è scoprire che si era già «chiuso un accordo tra Berlusconi e D’Alema, prendere o lasciare». Poteva mai Renzi accettare una decisione di D’Alema? Accompagnò il Cavaliere all’ascensore e gli sussurrò il nome del suo candidato: Sergio Mattarella. Berlusconi tornò a Palazzo Grazioli e non ci dormì la notte indeciso se votarlo o no. Anzi, aveva già deciso di farlo, vincendo tutti i suoi dubbi, visto che Mattarella non rientrava certo nel novero dei suoi amici, ma una lunga telefonata con il suo consigliere principale, Giovanni Toti (lo sa bene anche Salvini, che ha trascorso, guarda caso, un’intera giornata dopo il voto, in Liguria, con lui), lo convinse per il no. Toti gli prospettò che Mattarella non sarebbe mai passato, perché la minoranza dem, secondo informazioni che aveva avuto Casini, avrebbe spaccato il partito, come era successo con i 101 franchi tiratori che avevano impallinato Prodi due anni prima. Andò che non solo Mattarella prese tutti i voti del pd, ma che ne raccolse pure 40 dal centrodestra. Cose che succedono a fidarsi troppo di Casini.
Chiese un inginocchiatoio
I giornali scrissero che, appena insediato, il nuovo Presidente della Repubblica chiese un inginocchiatoio. Qualcuno aggiunse che volle portarsi pure un gatto, l’animale preferito della sua cara moglie, morta nel 2012, Marisa Chiazzese, figlia dell’ex rettore dell’Università di Palermo e docente di diritto romano Lauro Chiazzese. Suo fratello maggiore, Piersanti, aveva sposato la sorella di lei, Irma. Ed è quasi per raccogliere l’eredità politica di Piersanti Mattarella, ucciso dalla mafia nel 1980, mentre era presidente della Regione Sicilia, che diventa un leader della dc palermitana. Vicino per tradizione familiare alla corrente morotea della democrazia cristiana (suo padre Bernardo era stato 5 volte ministro dc negli Anni 50 e 60), nel 1984 è nominato commissario straordinario da De Mita con il compito di ripulire e rilanciare un partito logorato non solo dalle voci ma anche da qualche vicinanza strana con gli ambienti mafiosi. Dopo l’omicidio di suo fratello, Cosa Nostra aveva ucciso anche il segretario regionale del pci Pio La Torre e il Prefetto, Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, l’uomo che aveva sconfitto il terrorismo. C’era bisogno di un vento nuovo. Lui sconfisse Lima ed emarginò Vito Ciancimino. E nel 1985 si fece promotore della formazione di una giunta comunale di rinnovamento a Palermo, guidata da Leoluca Orlando, che era stato collaboratore di suo fratello alla Regione. Quella giunta fu uno degli elementi distintivi della primavera palermitana.
Si sta dimostrando all'altezza del suo ruolo
Ci restò fino al 1988 nel ruolo di commissario. Poi cominciò la sua carriera da ministro nel governo Andreotti, alla fine degli Anni 80, bruscamente interrotta con le sue dimissioni del 1990. Durante il periodo turbolento della crisi della Prima Repubblica, lui si schierò apertamente per l’alleanza con la sinistra contro Buttiglione, da lui apostrofato come «el general golpista Roquito Butillone», che invece voleva portare la dc a fianco di Berlusconi. In seguito definì «un incubo irrazionale» l’ipotesi che Forza Italia potesse essere accolta nel Partito Popolare Europeo e sostenne immediatamente la candidatura di Prodi come rivale del Cavaliere. Con tutti questi precedenti, era quasi normale la diffidenza di Berlusconi nei suoi confronti. Eppure, il patron Mediaset, qualche tempo dopo il suo insediamento, ha avuto per lui parole al miele: «Mattarella viene da una storia e da un cultura politica molto diverse dalla mia, ma gli ho sempre riconosciuto preparazione e autorevolezza, dignità e garbo istituzionale. E poi non posso dimenticare come il suo impegno politico nasca da un grande valore morale e civile, come risposta a un gravissimo atto di crimonalità che lo ha colpito negli affetti più cari. Da capo dello Stato si sta dimostrando, e non ne ho mai dubitato, all’altezza del ruolo». Non sono solo parole di circostanza. Il tempo è davvero straordinario. E ora non è da scludere a priori che fra i due ci possa anche essere una certa convergenza di pensiero, in determinate situazioni.
Ha sempre contato più delle sue poche parole
D’altro canto, Sergio Mattarella ha sempre contato molto più delle apparenze e delle sue poche parole in tutti i ruoli che ha ricoperto nella storia del nostro Paese. Da commissario straordinario della dc siciliana ha inventato Leoluca Orlando - quasi un precursore del dipietrismo prima e del grillismo poi - e quando è tornato a fare il ministro nei governi Amato e D’Alema, la sua reggenza al Dicastero della Difesa è coinciso con tre eventi fondamentali: la guerra in Kosovo, ma soprattutto l’abolizione del servizio di leva nell’esercito e il ritorno di un generale dei Carabinieri al comando dell’Arma, restituendo loro indipendenza e potere. Ma soprattutto porta il suo nome l’unica legge elettorale decente varata con la fine della Prima Repubblica, la legge Mattarella, chiamata Mattarellum dal politologo Sartori. Fu impiegata nel 1994, nel ‘96 e 2001. Premiava solo le coalizioni, è vero. Ma adesso, se fossimo andati a votare con una legge così, almeno sapremmo già come sarebbe il prossimo governo. E il Presidente non avrebbe avuto bisogno di appellarsi alla responsabilità dei partiti.