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Il no Mes fa rinascere il Conte 1 dell'asse tra grillini e leghisti

Conte ha giocato su due tavoli, accarezzare l’idea di un patto elettorale con il Pd, salvo poi sfilarsi sul Mes all’ultimo secondo utile, così da far esplodere l’anima riformista e non solo del Nazareno

Giuseppe Alberto Falcidi Giuseppe Alberto Falci   
Salvini e Conte (Ansa)
Salvini e Conte (Ansa)

Il giorno dopo la bocciatura sul Mes e l’approvazione al Senato della legge di bilancio circola una battuta in Transatlantico: «C’è stata la saldatura tra Conte e Salvini, è rinato il Conte 1». Già, il Conte 1: il primo esecutivo presieduto dall’avvocato popolo, il governo che avrebbe dovuto unire il Paese, il Nord leghista e il sud grillino, dopo le elezione del 2018 in cui i 5Stelle superarono il 30% e il centrodestra non ottenne la forza parlamentare per governare autonomamente. In un amen Salvini non è più un alleato affidabile per Giorgia Meloni, così come non lo è più Giuseppe Conte per il Partito democratico. Salvini è stato infatti l’artefice del dispetto alla war room di Palazzo Chigi. D’altro canto, mormorano ma nemmeno troppo fonti qualificate, «Giorgia prima o poi avrebbe ratificato il Mes. Lo avrebbe fatto con i suoi tempi. Ma Matteo ha accelerato per metterla in difficoltà e per mostrarsi più forte di fronte agli alleati di governo». Insomma, il caos. 

Dall’altra parte Conte ha giocato su due tavoli, accarezzare l’idea di un patto elettorale con il Pd, salvo poi sfilarsi sul Mes all’ultimo secondo utile, così da far esplodere l’anima riformista e non solo del Nazareno. Una saldatura, quella fra Conte e Salvini, che ha certificato la fragilità delle due coalizioni. Il leader leghista si è intestato il no al Mes, fin dal primo minuto. La posizione del Capitano di via Bellerio è rimasta la stessa da sempre, mai un tentennamento, mai una virata europeista. Tutto questo per provare a intercettare l’elettorato meloniano deluso e tutti il popolo dei sovranisti di destra che non intendono cedere alle sirene di Bruxelles. Operazione riuscita? «Lo scopriremo il 9 giugno. Da qui in avanti sarà sempre così» taglia corto un salviniano doc. Insomma, il vicepremier proverà a massimizzare i consensi. L’operazione «15 per cento» alle europee non sarà certo facile ma «non sarà impossibile». Tutto questo, va da sé, non aiuterà l’azione di Meloni che dovrà portare avanti l’azione di governo e al contempo affrontare le mine che piazzerà l’alleato leghista. 

Se questo succede a destra, la sinfonia non muta nel centrosinistra.  A questo punto i democratici sono più che perplessi sul futuro del cosiddetto campo largo. «Il problema è capire con quale versione di Conte allearci». Il modo in cui il presidente grillino ha cavalcato il no al Fondo Salva Stati, la cui revisione era stata avviata da lui quando era a Palazzo Chigi, ha confermato i timori. «Non è un alleato affidabile» dicono i più critici. È illusorio che da qui in avanti l’avvocato del popolo deporrà le armi. «È ritornato in modalità populista…». Tradotto, i democrat aspetteranno le elezioni europee. Non si fidano del M5S. Troppe le distanze sulle questioni economiche ma anche sulla politica estera. Posizioni, quelle del M5S, che fanno dire ai democratici che «la politica estera è un terreno cruciale su cui costruire un’eventuale futura coalizione». Ed è per tale ragione se oggi diversi sembrano essere scettici perché «non ci sono i presupposti». L’ala riformista arriva a dire a taccuini chiusi che «così viene in messa in discussione non solo la credibilità della coalizione ma anche dell’Italia». Non a caso Beatrice Lorenzin, vicepresidente del gruppo del Pd al Senato, la mette così: «Ma cosa ci sta a fare ancora Giorgetti? Un ministro sfiduciato dalla maggioranza, dal suo stesso partito e dalla sua premier? Nel merito ha ragione lui, e quando siederà al tavolo dei ministri dell'Economia europea sarà un'Italia balbettante e indebolita quella che deve rappresentare. Quella sul Mes è una vittoria di Pirro sovranista, buona da dare in pasto alla stampa nostrana, ma che non serve a niente al Paese e anzi ci fa sembrare la caricatura dell'Italietta che urla e strepita per il nulla. Una scelta che ci isola e che facciamo fatica a spiegare ai tavoli europei dove ben altro dovremmo chiedere: da investimenti a strategia industriale a immigrazione. Insomma, ancora una volta roba da asilo Mariuccia». Un’affermazione, quella di Lorenzin, che sembra colpire anche Conte, essendosi quest’ultimo opposto alla riforma del Fondo Salva Stati. 

Un contesto in cui si infila Matteo Renzi che sottolinea con forza le contraddizioni del M5S e del Pd: «Conte è uno show continuo: ha firmato il Me da premier, ma votato contro da deputato. Fa i decreti con Salvini sull’immigrazione, ma si definisce di sinistra. Tra qualche anno dirà che lui è sempre stato contro il reddito di cittadinanza. La sua faccia di bronzo non ha uguali. Non gliene faccio una colpa: lui è un camaleonte da sempre. Mi colpisce il Pd che si consegna mani e piedi a un sovranista». 

Ed è su queste note che le coalizioni si disarticolano e si preparano a una lunghissima campagna elettorale. Meloni aspetterà la prossima mossa di Salvini. Mentre il Pd metterà alla prova l’avvocato del popolo: «Sei quello del Conte 1 o quello del governo giallorosso?». Sempre se non si ri-saldi per davvero l’asse gialloverde che portò al Conte-1.

Giuseppe Alberto Falcidi Giuseppe Alberto Falci   
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