[L'intervista] Ichino: "Quando Di Maio parla di Cig è in contraddizione. Rinviare Flat tax e Reddito di cittadinanza sarebbe solo un bene. Ecco perché"
Per il giuslavorista, docente ed ex senatore Pd "il ministro del Lavoro sostiene cose incompatibili e vuole reintrodurre la misura assistenzialistica più deteriore. Pensioni: il passo indietro della Lega che ora vuole finanziare quota 100 con i fondi di solidarietà. Vi spiego io cosa bisognerebbe fare"
Si discute in questi giorni di Legge di Bilancio e le forze di governo cercano di far superare alle loro previsioni programmatiche la prova dei conti. Flat tax e Reddito di cittadinanza, capisaldi di Lega e M5S in campagna elettorale, richiedono uno sforzo particolare, forse decisivo, tanto che attualmente circolano addirittura voci di rinvio, di ricorso ai tempi necessari all'introduzione delle misure. Luigi Di Maio parla inoltre della necessità di mantenere la Cassa integrazione per le aziende che abbassano le serrande, mentre negli ambienti del Carroccio si riflette a fondo su Quota 100 in tema di pensioni. Il professor Pietro Ichino, noto giuslavorista, docente universitario ed ex senatore del Pd, ha delle opinioni precise in merito e Tiscali News ha voluto porgli alcune domande.
Professore, a suo avviso un rinvio dell’introduzione di Flat tax e Reddito di cittadinanza sarebbe un bene o un male?
“Sicuramente un bene, perché le due promesse elettorali hanno conseguenze pesanti. La Flat tax con la robusta riduzione del prelievo fiscale e il Reddito di cittadinanza col robusto aumento di spesa pubblica, sono incompatibili con il sentiero stretto su cui l’Italia sta camminando da qualche anno per rimettere sui binari giusti il bilancio pubblico e creare le premesse per la riduzione del nostro enorme debito pubblico. Il fatto che il governo decida di rinviare l’attuazione di queste due promesse inconsulte, non attuabili e non compatibili con quell'esigenza, è dunque sicuramente positivo. Il solo loro annuncio ha per altro già prodotto un danno grave per i conti, perché i creditori del debito pubblico hanno cominciato a chiedere interessi più alti per prestare soldi allo Stato. E di riflesso anche le imprese, per effetto del maggior interesse sul debito, subiscono un aumento dei costi del loro finanziamento. Mentre i privati cittadini con un mutuo a tasso variabile, o che chiedono un nuovo mutuo, si trovano a pagare interessi superiori rispetto a sei mesi fa o un anno fa”.
Per quanto concerne le pensioni, anche la quota 100 ipotizzata dal governo e in particolare dal Carroccio, per essere realizzata necessita di coperture. L’esperto di previdenza della Lega, Alberto Brambilla, vorrebbe ora finanziarla con i fondi di solidarietà. Cosa significa per il nostro sistema? In ambito leghista sembra una sorta di ripensamento.
“L’idea di Brambilla non è sbagliata. E’ l’idea per cui - laddove le aziende di un determinato settore siano disponibili a costituire un fondo di solidarietà, come accaduto nel settore bancario e assicurativo negli anni passati - si può finanziare il pensionamento anticipato dei dipendenti senza aggravi per la spesa pubblica. Stando così le cose tuttavia non si può più parlare di smantellare la Legge Fornero, di azzerare l’importantissima riforma che abbiamo varato nel 2011, bensì di riprendere proprio un elemento di quella legge, visto che ha sostenuto quei fondi. Significa che il governo non intende dar seguito alla promessa elettorale di abrogare la Fornero ma porsi su una linea di continuità rispetto a quanto si è fatto, con un'ovvia conseguenza: la possibilità di andare in pensione prima è data solo nei settori dove le aziende sono disposte a mettere mano al portafoglio. Non si tratta allora di quota 100 (somma di anni di contributi ed età anagrafica) estesa a tutta la platea dei sessantenni, ma di opportunità consentita solo dove il settore si attrezzi per finanziare il pensionamento anticipato”.
Di Maio propone di garantire la Cassa Integrazione alle aziende che chiudono, lei ha fatto notare che ciò mal si concilia con l’idea del Reddito di cittadinanza, che la misura dovrebbe assorbire, e perciò rendere inutili, tutti gli altri interventi di sostegno.
“Sì, effettivamente il Reddito di cittadinanza, così come delineato da tutti i grandi pensatori che hanno elaborato l’idea, da Schmid a Van Parijs, riguarda un reddito di base garantito a tutti, e come tale assorbe qualsiasi forma di assistenza parziale, settoriale e di categoria esistente. Dovrebbe concretizzarsi in un intervento universale con il pregio di pretendere criteri uguali per tutti. Ora, il progetto del M5s si scosta molto dal reddito di base garantito, perché in realtà prevede delle condizioni di povertà e di disponibilità al lavoro, l’idea manifestata è comunque quella di un intervento che assorbe ogni altra forma di assistenza. Il fatto che il ministro del Lavoro e del Welfare adesso difenda le vecchie forme di assistenza e proponga addirittura di ripristinare una delle misure dell’assistenzialismo più deteriore, quale quello della Cig erogata a dipendenti di aziende che hanno chiuso, fa pensare non creda tanto al Reddito di cittadinanza. Le due cose infatti sono chiaramente incompatibili".
Perchè ritiene la Cassa Integrazione che interviene per sostenere i lavoratori uno strumento da contrastare tanto duramente, qualcosa di deteriore?
"Parlo di assistenzialismo deteriore, perché la cassa integrazione è un sussidio, una integrazione salariale da erogare nei casi di crisi temporanea per tenere legati i lavoratori all’impresa in attesa che la crisi venga superata. Per evitare che cerchino lavoro altrove e migrino verso altre aziende. Ma quando l’azienda ha chiuso tenere legati i lavoratori al vecchio rapporto di lavoro è un non senso, una trappola in cui vengono cacciati. Abbiamo visto inoltre nei decenni passati i danni e le mostruosità conseguenti. Ci sono casi in cui la Cig è stata erogata per anni e anni. Nelle Case di cura di Bari, per esempio, si è raggiunto il record di 24 anni di erogazione. Sono dei mostri di assistenzialismo scriteriato, ed è una fortuna che queste forme siano state soppresse. Quando l’azienda non c’è più si deve sostenere il reddito dei lavoratori, ma per la ricerca di un nuovo posto di lavoro, incentivandola e non disincentivandola. Quindi la proposta di Di Maio sembra insensata, pericolosa e grave per l’economia italiana da un verso e, per l'altro, incompatibile col suo stesso progetto di reddito di cittadinanza”.
Potrebbe però trattarsi di una misura provvisoria in attesa di rendere concreto il nuovo sistema che, per essere adottato con efficacia ed equità, necessita di tempo (per esempio per attivare le Agenzie per l’impiego).
“Se il problema è una soluzione transitoria per garantire il passaggio, lo strumento c’è già ed è il trattamento di disoccupazione (Naspi). Volendo si può anche integrarlo, prevedere che l’azienda che chiude sia tenuta a versare un trattamento integrativo, per esempio un 5, un 10 o 15 per cento, che si aggiunga al 75 per cento dell’ultimo stipendio. Cosa ben diversa dal reintrodurre la Cig. Rafforzare il trattamento di disoccupazione significa pur sempre che il vecchio rapporto di occupazione non c’è più, che siamo di fronte appunto a uno stato di disoccupazione. Significa affrontare la situazione per quello che è, mentre attivare la Cig significa fingere che il vecchio rapporto ci sia ancora, invitare il lavoratore a starsene fermo e non cercare un nuovo lavoro perché quello vecchio riprenderà. Una bugia. Per questo dico che è un vicolo cieco, un inganno per i lavoratori”.
E a suo avviso cosa si può fare allora per sostenere i lavoratori che restano senza lavoro, oltre ai giovani che non lo trovano?
“Il lavoratore che ha perso il lavoro ha diritto a un sostegno del reddito, questo però dev’essere condizionato alla sua disponibilità a cercare un nuovo posto di lavoro, e anche alla formazione mirata agli sbocchi occupazionali esistenti. Non dimentichiamo che in Italia abbiamo 500mila posizioni lavorative perennemente scoperte per mancanza delle figure richieste. Più in generale il problema della lotta alla disoccupazione, e in particolare a quella giovanile, si risolve aumentando la domanda di lavoro. Incentivando gli imprenditori a investire in Italia, perché questo è il modo di accrescere la domanda di lavoro e far arrivare da noi buoni piani industriali, possibilmente quelli che valorizzano meglio il lavoro degli italiani. Per questo bisogna che il nostro sia un Paese accogliente, capace di offrire un territorio fertile alle aziende intenzionate a investire. Occorre poi rafforzare i servizi di formazione e riqualificazione in modo da consentire di rispondere alla domanda di lavoro qualificato che viene dalle nuove imprese, dai nuovi insediamenti industriali. Serve per ciò un sistema di formazione professionale fortemente orientato alle occasioni occupazionali esistenti. Fortemente orientato e controllato. Occorre un sistema di monitoraggio capillare di tutte le iniziative professionali finanziate con i soldi pubblici, ovvero fiumi di miliardi gestiti dalle Regioni con il contributo della Unione europea. Questo implica rilevare a tappetto gli esiti della formazione impartita, il tasso di coerenza tra formazione data da ciascun corso e sbocchi occupazionali effettivi e, dove il tasso non sia soddisfacente, chiudere il canale di finanziamento e spostare l’investimento su corsi più efficaci".
Perchè non si è ancora fatto?
Il monitoraggio a tappetto del sistema della formazione è cosa possibile. Basterebbe attivare l’anagrafe dei frequentatori dei corsi finanziati con soldi pubblici e incrociare i dati con quelli delle comunicazioni obbligatorie al Ministero del Lavoro per avere automaticamente il tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali, come avviene nei Paesi civili. Da noi questa cosa non si fa e non si vuole fare perché prevale l’interesse a conservare il sistema della formazione così com’è. Si ha paura del controllo, di dover chiudere corsi di formazione riconoscendone la totale inefficienza. Ovviamente non tutto il sistema è così, dobbiamo imparare però a distinguere la formazione efficiente da quella che non lo è”.
Capitolo pensioni: non crede sia troppo costringere i lavoratori a godere della pensione solo dopo i 67 anni?
“Nella generalità dei casi no, perché il lavoratore, quando si tratta di lavoro impiegatizio, che non richiede sforzo fisico, può benissimo continuare a lavorare fino a 67 anni, tenendo presente che a quell’età ha una attesa di vita media di altri 18-19 anni. Quando invece il lavoro ha un suo peso fisico incompatibile con l’età più avanzata, oppure per ragioni specifiche riguardanti il singolo lavoratore, o per caratteristiche intrinseche del lavoro, si può e si deve pensare a una possibilità di pensionamento anticipato, oppure alla utilizzazione diversa dell'interessato. Avere 67 anni di età può essere infatti incompatibile con la conduzione di un treno (caso del macchinista) ma non con l’attività di controllo dei biglietti. Bisogna dunque attrezzarsi per quello che nel Nord Europa chiamano la politica dell’ Active Ageing (Invecchiamento attivo), che comporta la possibilità di spostare i lavoratori, dopo una certa età, su posizioni meglio compatibili con le loro condizioni fisiche”.