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Il governo ottiene poco a Bruxelles e ora rischia molto sulla legge di Bilancio

La stessa premier parla di “bilancio con luci e ombre”. Il via libera all’Ucraina è stato il minimo sindacale. Tutte le contropartite di Orban. E’ andata meglio sul bilancio europeo ma l’Ungheria lo ha bloccato proprio ieri. Il ritorno a Roma prima del previsto. Il rischio blitz da parte delle opposizioni sulla manovra

Claudia Fusanidi Claudia Fusani   
Foto Ansa
Foto Ansa

Quello di Bruxelles è stato un bottino assai magro, lascia una serie di questioni aperte molto insidiose e il ritorno a casa, per quanto addolcito dalla festa di Atreju, è, per la premier e la sua maggioranza, un passaggio molto difficile. La legge di bilancio ha appena iniziato il suo iter in Commissione, la maggioranza alla fine ha presentato 23 emendamenti (dovevano essere zero per fare prima e presto), le opposizioni 2600, si sa già che ci sarà la fiducia (il 22 dicembre), che alla Camera arriverà il 27 e i deputati non potranno neppure leggerla. Un programma così serrato è anche molto precario e instabile. Le opposizioni non hanno alcuna intenzione di essere così “umiliate” e intendono esercitare fino all’ultimo il loro potere.

Cominciamo da Bruxelles. Anche perché sempre di dossier economici si tratta e sono sempre loro che preoccupano palazzo Chigi. Il via libera dei 26 meno uno (Ungheria) ai negoziati per l’adesione di Kiev alla Ue sono senza dubbio una bella notizia. Ma anche il minimo sindacale. Sarebbe stato un disastro, prima di tutto per l’Unione europea, fallire l’obiettivo che insegue da quasi due anni, da quando è scoppiata la guerra. Consentire a Orban, grazie al potere di veto che i regolamenti europei attribuiscono a ciascun stato membro, di far fallire questo goal, voleva dire suicidare l’Europa. E’ stato evitato, e questa la seconda buona notizia, grazie ad un escamotage che diventa un precedente prezioso in attesa di cambiare i regolamenti e prevedere maggioranze diverse - e non più unanimità - nell’approvazione dei dossier: quando i numeri lo consentono, il leader contrario accetta di non partecipare al voto, lascia la stanza e consente così che ci sia la “benedetta” unanimità.

Le tante contro partite

Orban è stato convinto da tanti fattori: sicuramente i soldi (10 miliardi dei 20 dei fondi Ue bloccati per violazione dei diritti sono già stati sbloccati); per il pressing di tutti i leader più importanti, Macron, Scholz e anche Meloni; per la rassicurazioni, una volta entrato nella famiglia europea dei Conservatori, ad avere  nel Consiglio che sarà eletto a giugno. Soprattutto a Orban è stato spiegato che questo voto è molto importante politicamente ma conta poco nei fatti. Per aprire formalmente  l’adozione della cornice negoziale con Kiev servirà un altro passaggio che però sarà votato dal prossimo Consiglio e una volta che Kiev avrà compiuto e realizzato tre riforme chiave: tutela delle minoranze, lotta alla corruzione e de-oligarchizzazione. Insomma, Orban avrà prossimamente l’occasione per far valere ancora il suo veto.

Luci e ombre

Cosa che ha fatto ieri quando ha sbarrato la strada all’approvazione della revisione del Bilancio Ue. Questo dossier era intrecciato al dossier Ucraina perché prevede lo stanziamento nel bilancio Ue di 50 miliardi destinati all’Ucraina.  Era in calendario ieri ed è stato congelato per il no di Orban, sempre lui. La proposta di mediazione arrivata nella notte tra giovedì e venerdì soddisfa l’Italia (punto a favore del governo) ma non è stata vidimata per l'opposizione dell’Ungheria. Significa che gli altri 26 Paesi membri, frugali inclusi, hanno approvato uno schema che prevede 21 miliardi di risorse fresche (e non 17 solo sull'Ucraina, come chiesto dal fronte del Nord) e 9,6 tra fondi nuovi e finanziamenti riallocati sul capitolo migrazione (come aveva chiesto l’Italia). Anche sul fronte della competitività industriale - la cosiddetta piattaforma Step - Roma ha incassato uno dei suoi desiderata: il cofinanziamento al 100% da parte della Ue di alcuni progetti per l’innovazione delle imprese. Ora tutto questo è ancora una bozza che sarà votata nel prossimo vertice straordinario previsto tra la fine di gennaio e i primi di febbraio. Però il fronte rigorista guidato da Berlino ha teso una mano. I bilaterali notturni e diurni hanno sortito qualche effetto.

A proposito di fotografie

Ora qui è necessario fare un punto sulla capacità di fare politica estera anche con le foto. E’ chiaro che la foto - affatto rubata e molto in posa - del trilaterale notturno all’hotel Amigo davanti a un rosso francese, non ha alcun potere evocativo. Non sarà mai una foto storica come quella di Mario Draghi con Macron e Sholtz sul vagone rivestito in legno in viaggio nella notte per Kiev. Mentre questa foto ha avviato una nuova stagione per la Ue e per la Nato, quella di Bruxelles testimonia, forse,  come nelle trattative a livello Ue valga di più il bilaterale meglio se informale delle riunioni ufficiali. E come i regolamenti dell’Unione debbano in fretta essere cambiati per rendere efficace l’azione politica della Commissione. La politica estera è materia complessa, ricca di sfumature e richiede tempi lunghi, pazienti. I risultati sono merce rara. E preziosa.

Nessun Patto

La missione europea ne ha portati molto pochi. Potremmo dire uno e mezzo su cinque. L’obiettivo già importante, e che al momento sembra fallito, è il nuovo Patto di stabilità. Che non era tecnicamente all’ordine del giorno ma è stato il dossier su cui si è discusso in tutti gli incontri ufficiali e a margine. Senza fare passi avanti. “Io non posso accettare un Patto di stabilità che nessun governo potrebbe rispettare” hanno commentato ieri in tempi diversi la premier Meloni e i ministro Giorgetti. Mercoledì prossimo è stato convocato un nuovo Ecofin straordinario per mettere la parola fine alla trattativa. La bozza della riforma è già pubblicata sul sito della presidenza spagnola, segnale chiaro che l’Europa vuole stringere. Ma per l’Italia il lavoro non è finito. “Ci sono tre punti che possono cambiare l’equilibrio” ha spiegato la premier nel punto stampa alla fine del Consiglio che si è concluso venerdì intorno alle 14 ben prima del previsto proprio per la mancanza di un accordo. Poco prima, ospite ad Atreju, il ministro Giorgetti era stato molto più tassativo: “Le possibilità di chiudere sul Patto sono scarse”. Almeno entro la fine dell’anno. La sensazione è che Meloni e Giorgetti si siano divisi i ruoli: poliziotto buono la prima, poliziotto cattivo il ministro.  Per la premier “l'intesa va cercata” ed è raggiungibile ma “le posizioni sono ancora distanti”. “Se il Patto è una trappola non lo firmeremo” è stato invece l'avvertimento di Matteo Salvini. A chi? All’Europa, alla Germania, al fronte dei frugali, magari anche agli stessi alleati di governo. Con Salvini non si sa mai. 

La minaccia del veto

Di sicuro non piace l’idea che il prossimo Ecofin sia stato convocato tramite videocall. “Non si può chiudere così un accordo che condiziona l'Italia per i prossimi anni” ha osservato il titolare del Mef.  “Una cosa che ho certamente imparato in questo anno di riunioni è che certamente si ottiene di più parlandosi a voce che da remoto” ha sorriso la premier che ha rivendicato “una convergenza” con Parigi ma, allo stesso tempo, ha ribadito la necessità di tener conto degli investimenti nei percorsi di rientro del debito e del deficit. Quella del Patto di stabilità resta una strada molto stretta. E mercoledì sarà un’altra giornata molto difficile. Sarà l’Italia questa volta a far valere il veto? Se si tiene conto del fatto che la maggioranza in Parlamento sta facendo di tutto per far slittare all’infinito il voto sul Mes (calendarizzato per giovedì scorso), la somma della due cose è un pessimo segnale dall’Italia verso Bruxelles. E non erano questi gli accordi.

Il punto è che, di fronte ad un Patto di stabilità che Roma reputa ancora insoddisfacente, il governo, spiegano fonti vicine al dossier, quasi preferirebbe un rinvio. Se Giorgetti il 20 dicembre si opporrà, l'accordo slitterà automaticamente a gennaio. Calcolando che l'ultima plenaria dell'Eurocamera disponibile per la ratifica finale della riforma è ad aprile, i tempi per concludere tutti i passaggi per l’entrata in vigore del nuovo Patto sarebbero a dir poco stretti. Resta da capire se, a quel punto, nella preparazione del Documento di economia e finanza ad aprile i Paesi membri debbano attenersi alle vecchie regole (tesi sposata dai rigoristi) o alle linee guida della Commissione, tarate sui principi della nuova governance economica. Non è un fattore marginale anche perché ad aprile la campagna per le Europee starà per entrare nel vivo. 

Il Mes

In questa trattativa comunque, ha assicurato Meloni, la ratifica del Mes non ha alcun ruolo. “Non c'è alcun ricatto, è un link che vedo solo nel dibattito italiano” ha ribadito la la premier. Sarà. Ma archiviare il 2023 senza Mes e senza Patto di stabilità sarebbe un pessimo segnale dall’Italia, dal governo Meloni, in vista delle Europee. Inevitabile, a quel punto,  sarà la domanda se Roma sia o meno ancora un partner affidabile.

Manovra, c’è aria di blitz

La preoccupazione è alta anche sulla legge di Bilancio. I tempi li abbiamo spiegati all’inizio di questo articoli. Resta l’incognita di cosa faranno le opposizioni. Intanto, per dare un segnale di responsabilità,  hanno deciso tutte insieme di convogliare tutte le magre risorse del tesoretto per le modifiche parlamentari rimasto (40 milioni per opposizioni, 60 per la maggioranza) sul contrasto alla violenza sulle donne. Faremo “un emendamento condiviso” solo su questo tema, ha annunciato il capogruppo del M5s in Senato Stefano Patuanelli. Per “dare un messaggio inversamente proporzionale alla frammentazione degli emendamenti dei relatori” e fare con le poche risorse “una misura utile”, ha aggiunto il senatore dem Daniele Manca. Sarà un “pacchetto di interventi concreti e immediati” che parte da vari emendamenti presentati dalle opposizioni, ha spiegato Raffaella Paita di Iv: l'aumento da 4 a 10 milioni del fondo per il reddito di libertà, altri 10 milioni per il potenziamento dei centri antiviolenza, 20 milioni per gli immobili da adibire alle case rifugio. Dalla maggioranza i segnali sono positivi e non si esclude la possibilità di sostenere la misura anche con risorse del 'tesoretto' della maggioranza. Che è già successo per l’emendamento Alzheimer che era del Pd ma è stato fatto proprio dalla maggioranza.

Il problema resta l’umiliazione dei senatori di non aver avuto spazio per discutere e dei deputati che sono stati del tutto scavalcati. C’è chi sta studiando blitz per non approvare la manovra entro il 31 dicembre e andare, anche solo per due giorni, in esercizio provvisorio. Un’umiliazione che il non governo non potrebbe accettare.

Claudia Fusanidi Claudia Fusani   
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