Il governo dei Presidenti e il think tank Draghi. I partiti hanno avuto. Ma non tutti quello che volevano
Polemiche nel centrodestra perchè sono stati scelti “moderati”. Rabbia di Berlusconi per Tajani. Rabbia nel Pd per l’assenza di donne. Ma le correnti sono salve. Un solo ministero per Italia viva. E non è di Bellanova. Leu tiene la Sanità
E’ il governo dei Presidenti. Che hanno saputo dosare fino all’ultimo grammo il bilancino della politica. Usando gli ingredienti disponibili cercando però, tra questi, quelli meno rigidi e divisivi. Più disponibile alla mediazione e discontinui - vale per Lega e M5s - rispetto alla stagione del populismo e del sovranismo. Ventitré ministri, otto sono i tecnici e “solo” otto le donne. Si individuano tre nuclei: quota Quirinale, quota Draghi e quota partiti. Che sono sei e hanno visto rispettato il rispettivo peso specifico: quattro ministri ai 5 Stelle, il partito di maggioranza relativa; tre a testa a Lega, Pd e Forza Italia che già o meno si equivalgono, uno a testa a Italia viva e Leu. I ministeri non valgono tutti allo stesso modo - tra Salute (Leu) e la Famiglia tornato alla renziana Bonetti c’è sicuramente una bella differenza -, non tutti hanno trovato posto (sono rimasti fuori i Centristi di Tabacci, +Europa di Emma Bonino e Azione di Calenda) e questo - come vedremo - ha già acceso le prime polemiche. Fuori i “sovranisti” di Lega e Forza Italia. Nessuna donna in quota Pd. Un importante ritorno: Roberto Garofoli, grand commis di lunga esperienza, è tornato nel cuore della macchina di governo, Draghi lo ha nominato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Il suo braccio destro. Se n’era andato nel 2019. Era al Mef, con il ministro Tria dopo aver lavorato con Monti, Letta, Prodi e persino D’Alema. E un file audio del portavoce Casalino immaginava di “passare per i coltelli” quei burocrati che tengono i cordoni della borsa e non volevano aprirli per il reddito di cittadinanza.
Ha deciso uno solo. Anzi due
“Io ascolto tutti però poi vi dovete fidare di me. Tocca a me tirare la sintesi” si è raccomandato Mario Draghi durante le consultazioni. Così ieri sera, dopo 48 di panico perchè nessuno sapeva dove fosse Mario Draghi e soprattutto nessuno lo sentiva per telefono e qui pochi erano comunque consegnati al silenzio totale, il premier incaricato è salito al Quirinale alle 19 in punto. Fino alle 18 ha regnato l’incertezza più totale. “Potrebbe salire anche lunedì” è stata una delle indiscrezioni fatte circolare da chi, e non sono pochi, già scommette sull’insuccesso e addirittura sperava in una non-partenza del governo Draghi. Il Professore ha invece solo atteso che il suo predecessore concludesse l’ultimo consiglio dei ministri (delicato perchè riguarda le chiusure Covid rinviate dal 15 al 2 febbraio) e mettesse a posto i cassetti con due anni e otto mesi di lavoro. Draghi è sceso dall’auto senza cappotto, abito blu scuro, camicia bianca e una elegante cravatta ruggine, e senza neppure una cartellina in mano. Nè una 24 ore, uno zainetto o un trolley. Segno che la lista era pronta e in quei 35 minuti di colloquio con Mattarella non è stato cambiato nulla. La squadra, e le relative scelte, sono state fatte ieri e stamani. Draghi è gia stato ribattezzato la Sfinge. Assertivo, impenetrabile. Per 48 ore, dalle 19 di mercoledì quando ha concluso le consultazioni alla Camera e ieri sera quando un comunicato del Quirinale ha annunciato il suo arrivo alle 19, è sparito. Tra i giornalisti è scattato un gioco “where is Draghi?”. E’ a casa in Umbria a Città della Pieve. No, gli hanno messo a disposizione un alloggio in una foresteria del comando generale dell’Arma. Acqua, fuoco, fuochino… Draghi ha passato tutto il giovedì al Quirinale dove gli è stata messo a disposizione uno studio. A pochi metri da Sergio Matterella con cui ha condiviso fino all’ultimo le scelte. Come prevede, del resto, l’articolo 92 della Costituzione.
Tutto è cambiato
Dopo quasi tre anni di chat, indiscrezioni, spin e file audio dai vari palazzi e nelle varie ora della giornata figlie della stagione in cui “uno vale uno” e lo streaming doveva essere la regola, 48 ore di silenzio sono stati per giornalisti e tivù una condizione quasi inedita. Da vertigine. Ci dovremo tutti riabituare in fretta. Draghi parla poco, non fa uscire virgolettati, non usa i social, ha orari nordici - nel senso che alle 19 più o meno le riunioni finiscono - e quando parla predilige discorsi brevi e chiari. Torneranno attuali i dossier, i fatti, le misure, i progetti e non le ricostruzioni. Questo almeno è stata la sua cifra operativa e comunicativa negli anni in Bankitalia e alla Bce. Ieri sera, nel Salone delle Feste del Quirinale allestito a sala stampa per garantire il distanziamento anti Covid, ha solo letto la lista della squadra. Ha sorriso prima di cominciare e alla fine. “Buonasera”, l’elenco dei nomi con il dicastero assegnato, prima i senza portafoglio e poi quelli con portafogli, “grazie”. Un’occhiata a chi aveva davanti. Non una parola più. Stamani (ore 12) il giuramento senza familiari, parenti nè giornalisti. Poi subito a palazzo Chigi per il rito della campanella e il primo consiglio dei ministri. Mercoledì la fiducia. Si comincia al Senato. Il giorno dopo alla Camera. Solo allora l’Italia conoscerà i dettagli del nuovo bazooka che il premier Draghi proverà ad usare per portare l’Italia fuori dalla crisi.
La squadra dei migliori?
E’ un governo sostenuto da sei partiti e con due componenti tecniche di peso, del Quirinale e del Presidente Draghi. Il Presidente Mattarella blinda il Viminale e il ministero della Giustizia confermando Luciana Lamorgese e indicando alla Giustizia l’ex presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia. Così come il Viminale, dopo Salvini, aveva bisogno di tornare ad una terzietà istituzionale e arrivò il prefetto Lamorgese, così oggi il ministero della Giustizia ha bisogno di essere gestito da mani non politiche in grado di superare il gap di una giustizia che non funziona. E di curare il male di una magistratura segnata dalle inchieste. In “quota Quirinale” è letta anche la conferma di Lorenzo Guerini al ministero della Difesa. La conferma di Guerini intreccia i tormenti del Pd che è a rischio scissione dopo mesi di tensioni tra le correnti per una crisi di governo poi innescata da Matteo Renzi ma da molti altri cercata e voluta. Guerini è il leader di Base riformista, una importante corrente del Pd, gli ex renziani che rifiutarono la scissione di Italia viva ma che male hanno sopportato l’abbraccio “strutturale” con i 5 Stelle decantato dal segretario Zingaretti e dal consigliere Bettini. Insomma, il rischio forte era che nella costruzione del governo Draghi ci fossero, nel Pd, più pretendenti - tre - che posti (due). In questi modo sono stati tutti accontentati: è entrato il vicesegretario Andrea Orlando, in quota segreteria, che sarà ministro del Lavoro, un dicastero chiave nei prossimi mesi. Ed è stato confermato ai Beni Culturali anche Dario Franceschini che però perderà la delega al Turismo, uno dei settori chiave per il Pil italiano (13%) ma che più di tutti sta soffrendo la crisi e che ancora non riesce ad avere prospettive serie di ripartenza e di aiuti.
Il think tank Draghi
La componente Draghi è l’altra componete tecnica di peso. Come previsto, l’ex presidente della Bce ha tenuto per sè i ministeri pesanti, economici e strategici. Una specie di think tank dei migliori all’interno del governo. Daniele Franco, il direttore generale di Bankitalia va in viale XX Settembre al dicastero dell’Economia. Roberto Cingolani, fisico, responsabile dell’Innovazione tecnologica di Leonardo spa, diventa il primo ministro del superministero della Transizione ecologica e sarà anche il referente per il Recovery plan. Cingolani, negli anni, non ha disdegnato la frequentazioni di politici e convention di partiti: ha partecipato a ben due Leopolde (l’ultima nel 2019) e anche un meeting 5 Stelle. Cristina Messa, rettore del Politecnico della Bicocca a Milano, è il nuovo ministro dell’Università e della Ricerca. Patrizio Bianchi prende il posto di Azzolina all’Istruzione. Vittorio Colao, ex numero 1 di Vodafone e il regista del famoso Piano rimasto nel cassetto di Conte, prende l’Innovazione tecnologica e avrà l’onere e l’onore se ci riesce di guidare l’Italia nella strada difficile ma affascinante della Transizione digitale. L’uomo giusto al posto giusto, verrebbe da dire. Sono questi gli uomini e le donne (compresa la quota Quirinale) cui Draghi affiderà la sfida italiana per la ripartenza e l’utilizzo del Recovery plan.
Il caso Bellanova
Esaurita la parte tecnica, bisogna dire che i partiti hanno avuto tutto quello che potevano chiedere. Tranne forse Italia viva: resta fuori Teresa Bellanova, il volto della crisi di governo, due mesi in prima fila a spiegare perchè si erano dimessi e le regioni una crisi che tutti facevano finita di non capire pur avendola cercata. Torna al “suo” posto, al ministero della Famiglia, Elena Bonetti, la meno politica della squadra renziana. Italia viva spera di avere ragione del suo peso e del suo ruolo nella partita sottosegretari. Matteo Renzi ha comunque subito applaudito al dream team di Draghi: “Una squadra di alto livello, buon lavoro al Presidente Draghi”. Italia viva è un partito piccolo. Tanto quanto Leu che però ha tirato un sospiro di sollievo quando è arrivata la telefonata che ha confermato Roberto Speranza alla Salute, un ministero di grande peso politico e strategico. Nulla a che vedere con la Famiglia che è senza portafoglio. Un trattamento impari. Staremo a vedere.
Il Movimento è il partito più rappresentato, quattro ministri: Di Maio resta alla Farnesina; D’Incà ai Rapporti col Parlamento; Patuanelli passa all’Agricoltura e Dadone ai Giovani e allo Sport. Una squadra molto legata a Di Maio, possiamo dire del tutto debatistizzata e decontizzata.
Bocciati i sovranisti. Del centrodestra dei responsabili
Il centrodestra torna al governo in pompa magna. La disponibilità all’appello del Capo dello Stato è stata premiata. Con buona pace dei mal di pancia dei grillini e del Nazareno. Forza Italia ottiene tre ministri:Renato Brunetta alla Pubblica amministrazione; Mariastella Gelmini agli Affari regionali ed Autonomie; Mara Carfagna avrà il pesante ministero del Sud. Si tratta di ex ministri già presenti nei precedenti governi Berlusconi. Salvini torna al governo con tre ministri: Giorgetti allo Sviluppo economico; Garavaglia al Turismo che dovrà avere un taglio più economico vista la crisi; Erika Stefani alla Disabilità. Sono tre temi che la Lega ha portato al tavolo delle consultazioni. “Mi aspettavo più discontinuità su Interni e salute, avranno bisogno di aiuto” ha commentato Salvini. Che ha promesso: “Va bene così, l’Italia chiama e dobbiamo tutti dare una mano”.
Il vero problema nel centrodestra è che non sono stati presi in considerazione coloro che in Forza Italia e nella Lega sono stati più vicini nei modi e nei toni a Salvini. Mentre risata chiaro che sono stati premiati i moderati. Una tendenza che non rispetta però gli equilibri interni.
Giancarlo Giorgetti e Massimo Garavaglia, ad esempio, potrebbe non essere stata perfettamente in linea con i desiderata dell’ex Capitano. Dentro Forza Italia, invece, scoppia il caos: si racconta di una telefonata direttamente di Silvio Berlusconi a Mario Draghi per non aver ricevuto un ministeri di peso per l'ex Presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani (che avrebbe rifiutato uno dei ministeri senza portafoglio), e uno di livello inferiore. E soprattutto per non aver tenuto in contro degli equilibri interni. La telefonata è stata smentita e Berlusconi, in un comunicato, ha augurato “buon lavoro al presidente Draghi” ed è “soddisfatto per i tre ministri nominati”. Ma i gruppi parlamentari sono in ebollizione e le chat infuocate. Il gruppo del Senato, ad esempio non è stato rappresentato, visto che i tre ministri sono tutti deputati. Uno sfregio nei confronti di chi ha lottato per mantenere il gruppo unito nelle difficili settimane in cui Conte faceva shopping 24 ore su 24 per trovare i Responsabili. Che infatti non ha trovato. Le nomine di Mara Carfagna a ministro al Sud e Coesione e di Renato Brunetta sono considerate come la vittoria dell'area che fa capo a Gianni Letta su quella tradizionalmente più vicina alla Lega. Senza contare che la vicepresidente della Camera, durante la crisi è stata indicata come la leader di quella pattuglia sul punto di costruire il gruppo dei responsabili per il Conte ter.
Le donne del Pd
Se l’adozione di Guerini da parte del Quirinale ha evitato, per ora e vediamo fino a quando, il disfacimento del Partito democratico e ha rinviato il congresso, nel Pd sono inferocite le donne. Anche nel governo Draghi, come già nel Conte 2, non ci sono ministre Pd. Il Nazareno è l’unica segreteria che non avrebbe indicato donne nella rosa dei nomi. O meglio: probabilmente c’erano Serracchiani e Pinotti. Ma era prioritario soddisfare le quote. Con i rispettivi leader. Quindi Orlando e Franceschini. Per un partito che dice di mettere la questione di genere al primo posto, non è un grande risultato. “Ha deciso tutto Draghi” si giustificano dalla segreteria. Questo è vero: ha deciso tutto Draghi. E Mattarella. Alcuni tweet parlano da soli. “Non ti preoccupare, noi siamo contente a casa, mentre cuciniamo e leggiamo il Women New deal” ha scritto Giuditta Pini commentando il post in cui Nicola Zingaretti sottolinea che “l'impegno del Pd” per una maggiore presenza di donne nel governo “non ha trovato rappresentanza” assicurando che “ farà di tutto perchè ci sia un riequilibrio”. Stessi toni per la senatrice Valeria Fedeli: “Nemmeno una donna del mio partito nell'elenco di ministre e ministri”. Non basterà rifarsi con i sottosegretari.