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La gara tra riforma Cartabia e referendum al fotofinish. I quesiti visti da vicino e le ragioni del sì e del no

Domenica 12 giugno - dalle 7 alle 23 - le urne non si aprono solo per le elezioni amministrative in 978 Comuni, ma anche per le cinque consultazioni volute da Lega e Radicali

Ettore Maria Colombodi Ettore Maria Colombo   
Il comitato promotore dei referendum (Foto Ansa)
Il comitato promotore dei referendum (Foto Ansa)

E’ una specie di ‘gara’ a chi arriva prima, quella tra la riforma della Giustizia - penale, civile, del Csm – targata Marta Cartabia e i referendum, anch'essi sulla giustizia, lanciati dai Radicali e dalla Lega. Alla partenza erano sei, al traguardo del voto sono cinque, poiché la Consulta ne ha tagliato fuori uno, di certo quello più popolare, sulla responsabilità civile "diretta" dei magistrati. I cinque quesiti, stando ai sondaggi, arrancano per via del quorum, il 50% degli aventi diritto al voto. Chi li propone, Matteo Salvini in testa, accusa i media, parla di "censura e bavaglio", chiede "aiuto" a Mario Draghi e Sergio Mattarella, accusa la sinistra di "nascondere" i referendum con l'obiettivo "di avere magistrati politicizzati con i quali provare a vincere se perdono le elezioni".

Uno scorcio di campagna referendaria avvelenata. Ma la "sfida" tra le tre riforme della Guardasigilli Cartabia e già votate dalla maggioranza Draghi alla Camera, Lega compresa - e i referendum è giunta all'ultimo traguardo. Se ne conoscerà l'esito a distanza di pochi giorni. Perché domenica 12 giugno - dalle 7 alle 23 - le urne non si aprono solo per le elezioni amministrative in 978 Comuni, ma anche per i cinque referendum.

Mercoledì 15 giugno, invece, l'ultima delle tre riforme di Cartabia, quella del Csm che interviene su ben tre temi (carriere dei giudici, avvocati nei consigli giudiziari, firme per candidarsi a palazzo dei Marescialli), arriva in aula al Senato per il voto finale. Suspense esclusa. Perché il premier Draghi ha già ribadito più volte che il testo uscirà da Palazzo Madama con il voto finale pronto per entrare in vigore, visto che il voto per rinnovare il Csm si approssima e sarà comunque necessario un rinvio rispetto alla scadenza di settembre.

Ma comunque la sfida sui quesiti referendari ci sarà lo stesso. E lo dimostra il fiorire dei gazebo di radicali e leghisti in tutta Italia. Nonché lo sciopero della fame del leghista Roberto Calderoli, che si paragona a Pannella. La preoccupazione di Calderoli è, ovvio, il quorum.

Il problema del quorum e l’abbinamento con le elezioni comunali

I quesiti, promossi dalla Lega e dai Radicali, dichiarati ammissibili dalla Corte costituzionale lo scorso 16 febbraio, lo stesso giorno in cui la Consulta ha bocciato quelli su fine vita e cannabis, chiedono di abrogare totalmente o in parte alcune leggi del sistema della giustizia, ma per essere approvati richiedono il raggiungimento del quorum fissato dall’articolo 75 della Costituzione, cioè la presenza alle urne del 50% più una delle persone aventi diritto al voto. Considerando che, in Italia, alle ultime elezioni politiche del 2018 (Camera dei Deputati, che comprende il voto anche dei 18 enni in su), hanno votato 50.782.650 milioni di cittadini, la metà più uno è di 25.391.325 votanti, una cifra, ovviamente, difficilmente raggiungibile. E questo nonostante il voto si tenga in un giorno, domenica 12 giugno (si vota solo in quella giornata, dalle 7 alle 23, muniti di documento di riconoscimento e tessera elettorale). Una giornata, il 12 giugno, diventata un’election day in quanto andranno a votare, per il primo turno delle elezioni comunali, quasi nove milioni di italiani in 978 Comuni.

Ovviamente, il sì ai referendum è valido, oltre al raggiungimento del quorum, anche e solo se è raggiunta, dai proponenti, la maggioranza (50%+1) dei voti validamente espressi.

Chi ha raccolto le firme sui referendum sulla giustizia

I sei testi iniziali - ridotti poi a cinque con il rifiuto dell’ammissibilità del quesito che avrebbe dato responsabilità civile ai magistrati in caso di errori giudiziari, invece che allo Stato – sono stati promossi dalla Lega, vidimati da nove consigli regionali di centrodestra e sostenuti dai Radicali. Non si tratta quindi di referendum di iniziativa popolare, come quelli su fine vita e cannabis, ma deliberati dalle maggioranze politiche dei consigli regionali e approvati automaticamente dall’Ufficio centrale per il referendum. I promotori sono dunque solo le regioni nelle persone dei propri delegati, in quanto non esiste un comitato composto da Lega e Radicali e le firme popolari raccolte sui quesiti non sono mai state consegnate.

I cinque quesiti referendari

I cinque quesiti ammessi riguardano l’abrogazione della legge che vieta la candidatura a cariche pubbliche per persone con condanne penali definitive superiori a due anni di carcere, l’eliminazione della custodia cautelare per alcuni reati, la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri e due riforme di alcune norme che regolano le attività del Consiglio superiore della magistratura (Csm).

All’elettore verranno consegnate 5 diverse schede elettorali di cinque differenti colori (rosso, arancione, giallo, grigio e verde), ognuna delle quali contenenti un quesito. Tre domande su cinque riguardano il funzionamento interno dell’ordine giudiziario, vale a dire l’elezione dei magistrati al Csm, la valutazione sull’operato delle toghe e la separazione delle funzioni. Gli altri due sono collegati al diritto penale e riguardano l’abolizione della Legge Severino e la limitazione delle misure cautelari. Ricordiamo che per abrogare le norme oggetto di referendum si dovrà votare Sì, per mantenere le norme oggetto di referendum si dovrà votare No. 

Il quesito per l’abrogazione della legge Severino (scheda rossa)

Il primo quesito (scheda rossa), il più critico e critico, chiede l’abrogazione della legge Severino (dal cognome dell'ex ministra della Giustizia del governo Monti, Paola Severino). Questa norma vieta la candidatura e l’eleggibilità a qualunque carica pubblica per le persone condannate in via definitiva a più di 2 anni di carcere, per reati di corruzione, concussione, collaborazione con la criminalità organizzata o organizzazioni terroristiche e per delitti non colposi con pene dai 4 anni in su. Inoltre, la Severino prevede la sospensione della carica per 18 mesi in caso di condanne non definitive o la decadenza in caso di condanna definitiva.

Il quesito presentato chiede di eliminare completamente questa norma, per lasciare la decisione ai giudici caso per caso. Se dovesse vincere il sì, anche i candidati per reati gravi potranno concorrere per le cariche pubbliche, salvo diversa indicazione del giudice.

E’ il quesito intimamente più contraddittorio. Esiste infatti il problema reale delle sospensioni di amministratori locali e regionali per sentenze non definitive spesso smentite nei gradi successivi che andrebbe eliminato; ma il quesito elimina per intero anche la decadenza e l’incandidabilità per le sentenze definitive. E’ vero che non ci sarebbe comunque un ampio vuoto normativo perché per le sentenze definitive ci sono comunque in vari casi le pene accessorie, ma è opportuno, su sentenze definitive, eliminare questi automatismi? La riforma non interviene.
 
Perché Sì: l’automatismo deve essere eliminato e devono essere i giudici a stabilire l’interdizione dai pubblici uffici tramite pena accessoria.

Perché No: bisognerebbe modificare alcuni elementi, come la sospensione per gli amministratori locali che hanno subito sentenze non definitive, ma la Severino deve rimanere.

Il quesito per limitare la custodia cautelare

Il secondo quesito (scheda arancione) chiede una riforma della custodia cautelare, una misura preventiva applicata per limitare la libertà a un imputato durante un processo, in caso di pericolo di fuga, inquinamento delle prove o di reiterazione dei reati come delitti personali o legati alla criminalità organizzata.

Il quesito chiede quindi di eliminare la custodia preventiva per i delitti puniti con un massimo di 5 anni di carcerazione o 4 in caso di arresti domiciliari.

L’eccesso di carcerazione preventiva è un problema reale. Si interviene sulla tipologia della possibile reiterazione del medesimo reato, che in vari casi (ad esempio lo stalking, la truffa, reati fiscali e finanziari) appare però un pericolo obiettivo. Su di esso non interviene la riforma della giustizia.
 
Perché Sì: riduce il numero di indagati e imputati soggetti a misure cautelari senza essere processati.
Perché No: riduce la possibilità di applicare misure cautelari in casi in cui è fondamentale agire con urgenza, soprattutto per alcune tipologia di reato, come la truffa o lo stalking, in cui il rischio reiterazione esiste. 

Il quesito per la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri (scheda gialla)

Il terzo quesito (scheda gialla) interviene sulla separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri. Il ruolo dei primi è appunto di esprimere un giudizio sui casi, mentre il ruolo dei secondi è di promuovere l’azione penale contro gli imputati. Oggi, il passaggio tra i due ruoli è limitato a un massimo di quattro volte con alcune regole, tra cui l’impossibilità di svolgere entrambe le funzioni all’interno dello stesso distretto giudiziario. Tuttavia, se la riforma presentata dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia dovesse venire approvata, il numero di passaggi possibili scenderebbe a uno.
 
Il quesito, invece, chiede che venga eliminata completamente la possibilità per i magistrati di cambiare carriera da giudice a pubblico ministero e viceversa, imponendo quindi di dover scegliere in maniera definitiva a inizio carriera se diventare giudice oppure pubblico ministero.
 
E’ il quesito più importante in termini di sistema, che si inserisce nella scia della riforma dell’articolo 111 della Costituzione del 1999 che in chiave liberale richiede un giudice terzo rispetto ad accusa e difesa. Rispetto a questa esigenza di equilibrio liberale di sistema non convincono affatto le obiezioni pragmatiche (lasciamo scegliere dopo un certo periodo di esperienza, in pochi passano effettivamente, ecc.) perché il fatto di costruire un sistema in cui da una parte stanno insieme giudice e accusatore e dall’altro il difensore dà vita a uno squilibrio strutturale. Da ricordare che l’art. 12 del testo sulla riforma della giustizia va nella stessa direzione, riducendo i passaggi ammessi da 4 a 1.
 
Perché Sì: la modifica riequilibra il sistema giudiziario, evitando commistioni tra chi giudica e chi accusa.
Perché No: la separazione delle funzioni rischierebbe di isolare i Pm e sarebbe un ostacolo alla carriera dei magistrati, impedendo loro di svolgere funzioni diverse.

Il quesito sulla valutazione dei magistrati (scheda grigia)

Il quarto quesito (scheda grigia) vuole intervenire sulla valutazione dei magistrati effettuata dalla Corte di cassazione e dai Consigli giudiziari. Ogni quattro anni i magistrati sono valutati da un consiglio disciplinare, composto da altri magistrati, cioè giudici e pubblici ministeri, da avvocati e professori universitari di materie giuridiche. Mentre tutti i membri del consiglio collaborano alla formulazione del giudizio, il voto sulla valutazione finale spetta solo ai magistrati. 
Il quesito vuole quindi estendere il potere di voto sulla valutazione dei magistrati anche agli avvocati e ai professori universitari. Sul punto la riforma Cartabia apre al solo voto dell’avvocatura. L’eventuale sì non sarebbe dunque superato dall’articolo 3 della riforma della giustizia (che apre ai soli avvocati) perché è una norma di delega e non di diretta applicazione.
 
Perché Sì: la componente laica non deve essere esclusa dal giudizio sulla professionalità dei magistrati per ridurre il tasso di autorefenzialità nelle valutazioni.
Perché No: il rischio è quello che un giudice debba rimettersi al giudizio di un avvocato che potrebbe incidere su un eventuale avanzamento di carriera o esprimersi a suo sfavore per contrasti professionali. Per i sostenitori del No la questione andrebbe risolta per “via legislativa”. 

Il quesito sulle firme per candidarsi al Consiglio superiore della magistratura (scheda verde)

Il quinto quesito (scheda verde) vuole abolire l’obbligo di raccolta firme per i magistrati intenzionati a candidarsi al Consiglio superiore della magistratura. Il Csm è composto da 27 membri, di cui 3 di diritto - cioè non eletti, che sono il presidente della Repubblica più il presidente e il procuratore generale della Corte di cassazione – e gli altri eletti. Il suo ruolo è governare la magistratura, valutando e gestendo in maniera autonoma le azioni di giudici e pubblici ministeri. Tra i suoi compiti c’è anche la gestione dei concorsi, gli avanzamenti di carriera, gli spostamenti e le sanzioni disciplinari.
Esclusi i tre membri di diritto, gli altri 25 vengono eletti per due terzi dai magistrati e per un terzo dal Parlamento. Per diventare membro del Csm, un candidato o una candidata deve ottenere le firme di almeno 25 magistrati che svolgono un ruolo di supporto alla candidatura. Il quesito propone quindi di eliminare la raccolta firme, per permettere al candidato o alla candidata di presentare liberamente una candidatura, senza la necessità di un appoggio. Secondo i promotori questo eviterebbe voti politicizzati all’interno del Csm e mette in discussione l’attuale sistema basato sulla fotografia delle correnti, ma l’impatto sarebbe limitato perché non interviene sulla trasformazione dei voti in seggi. Inoltre, il quesito sarebbe superato dall’eventuale approvazione dell’articolo 33 del testo sulla riforma della giustizia in Aula alla Camera che è di diretta applicazione, non di delega.
 
Perché Sì: secondo i sostenitori del Sì, abrogando questa norma si riuscirà a indebolire le correnti interne alla magistratura, lasciando ai magistrati maggiore libertà di candidarsi.
Perché No: secondo i sostenitori del No la riforma Cartabia prevede già questa modifica, quindi sottoporla a referendum non ha senso. 

La posizione dei partiti sui referendum

Per quanto riguarda gli schieramenti politici a sostegno o contro il referendum, la divisione maggiore è tra centrodestra e centrosinistra.

Il sì ai quesiti è sostenuto da Lega, Forza Italia, Azione, i radicali e Italia viva. Alcuni partiti della attuale maggioranza di governo, dunque, sostengono il referendum ma voteranno anche a favore del disegno di legge di riforma dell’ordinamento. Politicamente, la scelta viene motivata con il fatto che il ddl è stato il frutto di una mediazione tra partiti che solo eccezionalmente fanno parte della stessa maggioranza vista la natura tecnica dell’esecutivo Draghi. Dunque, se la lealtà nei confronti del governo rimane, i partiti del fronte del sì ritengono che la loro posizione politica in materia di giustizia sia meglio rappresentata dai quesiti referendari. Ma vediamo le singole posizioni.
 
Lega: il Carroccio è uno dei due partiti che ha promosso il referendum. I suoi sono cinque sì.
 
Forza Italia: Sì a tutti e cinque i quesiti che secondo Silvio Berlusconi sono “fondamentali” per riformare l’ordinamento giudiziario.
 
Fratelli d’Italia: Sì solo ai tre quesiti che riguardano l’ordinamento interno, No a quelli sulla legge Severino e ai limiti alla custodia cautelare.
 
Italia Viva: Sì a tutti e cinque i quesiti.

Azione: Sì a tutti e cinque i quesiti.
 
M5S: No a tutti e cinque i quesiti.
 
Partito Democratico: libertà di coscienza al voto. Enrico Letta ha fatto sapere che voterà No a tutti i quesiti perché “aprirebbero più problemi di quelli che si vogliono risolvere”, ma il Pd ha scelto di lasciare libertà di coscienza ai suoi iscritti: sempre Letta ha dichiarato di essere per il no, ma ha aggiunto che "il partito non è una caserma". Infatti, alcuni parlamentari, come il costituzionalista Stefano Ceccanti, hanno dichiarato che voteranno sì, così come alcuni sindaci come Giorgio Gori di Bergamo, che ha scritto: "Io ribadisco i miei tre sì: separazione delle carriere, custodia cautelare e legge Severino per affermare il valore della presunzione di innocenza e dei diritti della difesa".

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