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Evasori fiscali e stretta sul Pos: ecco perché si tende a limitare il contante

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
Stretta sui Pos (Ansa)
Stretta sui Pos (Ansa)

La differenza fra due stagioni politiche si misura anche dalle parole che più vi ricorrono e che finiscono per caratterizzarle. Un anno fa, la parola-chiave, continuamente sulle labbra di Salvini e degli uomini della Lega, era “condono”: dalla rottamazione e dal taglio delle cartelle arretrate (realizzati) allo sdoganamento del contante nelle cassette di sicurezza (mancato). Oggi è “caccia all’evasore”, con le manette sbandierate dai 5Stelle o il marcamento stretto di idraulici e avvocati, cui punta il Pd. I numeri, del resto, gridano vendetta. Ogni anno, in Italia, si evadono imposte per quasi 110 miliardi di euro, quattro volte la manovra “tagli e tasse”di quest’anno. Solo un detenuto su 200, però, nelle carceri italiane, è in prigione per reati fiscali. L’evasione, d’altra parte, è troppo diffusa per pensare di combatterla solo nei tribunali. E’ un problema sociale.

I dipendenti e gli autonomi

Se 15 milioni di lavoratori dipendenti, con la trattenuta in busta paga, le imposte, infatti, più o meno, le pagano sempre, lo stesso non si può dire di 5 milioni di lavoratori autonomi: imprenditori, professionisti, artigiani, commercianti. L’Agenzia delle entrate calcola che, su 100 euro evasi, 85 siano stati imboscati da gioiellieri, elettricisti, industriali. Fra di loro, ci sono i grandi evasori, che nascondono al fisco milioni e milioni di euro, soprattutto sull’Iva. Ma l’Irpef riguarda le persone fisiche e i grandi redditi suscettibili di grandi evasioni, si riducono a poche centinaia di famiglie. Eppure, all’appello dell’Irpef manca una cifra enorme, quale solo una evasione di massa può generare. Calcolando la differenza fra il gettito incassato e quello che l’andamento dell’economia avrebbe giustificato, il ministero del Tesoro valuta in 32 miliardi di euro il mancato versamento dell’Irpef da parte di migliaia e migliaia di lavoratori autonomi. Questo vuol dire una propensione ad evadere pari al 69,6 per cento. Detto in parole più semplici, su 100 euro di imposte da pagare medici e salumieri, valuta il fisco, ne pagano solo 30 e se ne tengono in tasca 70.

La stretta sui Pos

Nasce da qui la “stretta sui Pos”, contenuta nella manovra finanziaria 2020, cioè il tentativo del governo di limitare l’uso del contante e di incentivare l’uso dei pagamenti elettronici (carte di credito o bancomat),  che dovrebbero essere trasparenti per il fisco. L’Italia, infatti, condivide il record europeo della più alta evasione fiscale con quello del più alto uso del contante. Difficile che sia un caso. Ma non è una ricetta a colpo sicuro: dal 2012 dal 2018, l’uso dei Pos (le macchinette per i pagamenti digitali su cui si appoggiano o si fanno scorrere le carte di credito) è cresciuto del 112 per cento. Ce ne sono in servizio oltre 3 milioni. Le transazioni effettuate con carte di credito sono aumentate del 57 per cento, per un controvalore di 32 miliardi di euro, 12 in più rispetto al 2012. Eppure l’evasione, segnala una nota della Confesercenti, l’organizzazione dei piccoli commercianti, la più preoccupata per le novità in vista, è stata appena intaccata.

I controlli

Possibile che la colpa sia di una scarsa efficacia dei controlli incrociati del fisco. Più probabilmente, in un paese in cui l’80 per cento delle transazioni avviene in contanti, anche un boom dei pagamenti digitali modifica in misura modesta i grandi numeri. Un conto attendibile si potrà fare quando ci sarà effettivamente un Pos in ogni negozio e in ogni ufficio e si potrà essere ragionevolmente sicuri che venga anche usato. Per questo, fin dal 2014, sono previste multe per chi non lo usa e lo tiene nel cassetto. Minaccia completamente spuntata dal fatto che nessuno, contemporaneamente, aveva anche varato le sanzioni. Che il governo fa arrivare adesso, con la stretta sui Pos: 30 euro e il 4 per cento del valore della transazione negata. O, meglio, che arriveranno la prossima estate, visto che l’ultimo accordo fra i partiti ha fatto slittare a giugno l’armamentario delle multe.

Dietro il rinvio

Dietro il rinvio deciso lunedì, dopo giorni e giorni di polemiche roventi, c’è la preoccupazione di non inimicarsi milioni e milioni di elettori che sono anche lavoratori autonomi soggetti al Pos e che già sono fin troppo inclini a votare per la destra all’opposizione. Ma anche un problema reale. Mettersi in regola, calcola la Confesercenti, fra impianti, costi e canoni, comporta una spesa per il complesso di venditori interessati pari a 2 miliardi di euro. Il Codacons, l’associazione dei consumatori, ha subito calcolato l’impatto per le famiglie. Se gli esercenti scaricassero i maggiori costi legati ai Pos sui consumatori, significherebbe una spesa extra, per le famiglie, di 77 euro l’anno, a mangiarsi un bel po’ del beneficio regalato dagli interventi sul cuneo fiscale. Per evitare questa sorta di autogol, da qui a giugno prossimo, occorre intervenire sulla giungla delle concessioni che appesantiscono la gestione dei Pos.

La giungla

Di giungla, in effetti si tratta. A cominciare dallo stesso Pos. Farselo mettere nello studio o in negozio può costare 100 euro una tantum, se ci si rivolge a Unicredit, o anche zero, se si chiama Intesa (che però vuole 200 euro di penale, in caso di recesso). Le Poste e le altre banche stanno fra questi due estremi. Poi c’è il canone mensile, che può variare da 30 a 50 euro per Unicredit, da 24 a 40 per Intesa, a seconda se si sceglie un collegamento Internet superveloce o meno. Ma il canone può anche non esserci se ci si rivolge alle nuove società virtuali, come SumUp o Wallet-ABILE, che affittano gratis la macchinetta del Pos, in cambio della possibilità di far transitare gli incassi, anzitutto, sui propri conti. E si accontano di commissioni, sostanzialmente, più basse.

Le commissioni

Ecco, le commissioni sono lo snodo cruciale della lotta al contante. Il consumatore non le vede, perché non le paga lui (almeno se non vengono scaricate sui prezzi, ma questo vorrebbe dire rincarare il listino anche per chi paga in contanti). Sono a carico, infatti, dell’esercente: la sua banca le preleva dall’incasso e le gira alla banca che ha emesso la carta, che, a sua volta, se ne tiene più o meno un terzo e lascia il resto ai giganti che gestiscono le reti di pagamento, tipo Visa e Mastercard. La Ue ha stabilito che le commissioni non possono superare lo 0,2 per cento della transazione (con il bancomat) o lo 0,3 (carta di credito). Entro questi limiti, la concorrenza spinge ogni istituto ad applicare le proprie tariffe, con vari costi collaterali che, secondo i critici, comportano un costo della transazione per l’esercente, tutto compreso, che può arrivare allo 0,9 per cento.

Le medie sono sempre scivolose. Siccome molte banche applicano, per ogni transazione, oltre alla commissione, un costo fisso di 10 centesimi, ne risulta che, se al bar, cappuccino, ciambella alla crema e spremuta di arancia sono stati pagati 10 euro, la commissione riscossa sarà dell’1 per cento. In effetti, sono proprio i piccoli pagamenti la chiave del problema. Gli esperti calcolano, infatti, che, per pagamenti superiori a 30 euro, il costo legato all’uso del Pos e delle commissioni venga recuperato. E’ su quelli sotto 30 euro che il costo pesa sul negoziante. La Confesercenti ne chiede l’azzeramento. Ma le banche chiamate a gestire il pagamento replicano che comunque comportano dei costi di esercizio. E vedono anche in questo spolverio di piccole transazioni all’1 per cento un interessante flusso di incassi. La partita si apre ora. La promessa è di chiuderla entro giugno.

 

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
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