[L’inchiesta] Dalla sindaca più amata d’Italia al disastro. La discesa senza freni dell’Appendino
Il mito della sindaca brava, intelligente, che governa bene e potrebbe pure aspirare a Roma, si infrange non solo sui fatti drammatici di Piazza San Carlo, ma anche sulle questioni di bilancio, sull’azienda dei trasporti a rischio fallimento, sulla cultura e sui tagli alquanto assurdi che impone, bloccando in questo modo l’unica risorsa assieme al turismo nel nuovo progetto che deve darsi la Torino orfana della Fiat per guardare in qualche modo al suo domani
C’è stato un momento in cui nei Cinque Stelle qualcuno aveva persino pensato a Chiara Appendino al posto di Di Maio come candidata premier. Era all’inizio del suo mandato, quando la sindaca di Torino era stata giudicata come «la più amata d’Italia», mentre a Roma la sua collega di partito, Virginia Raggi, affondava nelle polemiche. Ora, il Guardian non scende nella capitale per raccontare una sconfitta del Movimento, ma si ferma sotto la Mole, in questa città orfana della Fiat, ripulita e miracolata per le Olimpiadi del 2006, quasi reinventata, e adesso ripiombata nella sua naturale tristezza, quella cappa di grigiore e di paura che ne faceva un tempio diroccato degli Anni 70. Titolo: «How Turin turned against its Five Star Moviment major», così Torino ora è contro il suo sindaco dei 5 Stelle.
Noi giornalisti esageriamo sempre. Non è vero che la città non ne può più, come sembrerebbe dal servizio. Però, molte cose sono cambiate: due inchieste che la coinvolgono, una per gli incidenti di piazza San Carlo e l’altra sull’ex Westinghouse per un debito del Comune cancellato da un documento contabile, le dimissioni dell’ex braccio destro, che cercava al telefono di non far pagare la multa a un amico, le polemiche a ogni piè sospinto, la stampa che comincia a schierarsi contro, le rumorose contestazioni appena mette fuori il naso, le critiche continue, a volte ingiuste, come se le portasse fuori il vento che spira, che è un vento diverso. In realtà, qualcosa è successo, in un senso e nell’altro. La cosa positiva, che nessuno sembra aver voglia di sottolineare, è il ricambio generazionale, al posto di amministrazioni cittadine abbastanza sclerotizzate che davano ormai l’impressione di fare tutto come se fossero a casa loro. E in effetti era qualcosa di più di una semplice impressione.
La giunta Appendino cambia questo trend, ci sono solo nomi nuovi e sono giovani, e alcuni di loro, come Alberto Umia, assessore all’ambiente, lavorano bene, nonostante commercianti e giornali lo attacchino senza sosta per i blocchi al traffico. Anche qui c’è tutta Torino, una delle città più inquinate d’Europa, forse addirittura la peggiore, che ha sempre fatto finta di niente per il servilismo interessato delle precedenti amministrazioni. Per sua natura, questa città lascerebbe sempre stare le cose come sono. E forse per questo, la Appendino non aveva mai creduto di poter vincere contro Fassino. E’ diventata sindaco a sua insaputa. Ma se una città come Torino aveva deciso di cambiare, non era perché la città era stata governata male, ma solo perché la cappa di quel sistema opprimente che metteva insieme intellighenzia, industria, affari e politica, occupando tutti i posti che voleva e come gli pareva, era diventata irrespirabile.
Lei è una oscura consigliera comunale, figlia di Domemico Appendino, dirigente e poi vicepresidente di Prima Industria, azienda leader internazionale dei macchinari laser, una brava ragazza laureata alla Bocconi con il massimo dei voti, cresciuta a pane e confindustria, tutte le cose in regola e per bene, compreso un corso di perfezionamento in Germania per il tedesco e lo stage alla Juventus. E’ la più preparata nel gruppetto dei duri e puri dei 5 Stelle. Ma sono dei giovani che devono imparare ancora tutto. Chi non è giovane e non deve imparare però è Paolo Giordana, il suo Rasputin, come lo hanno battezzato i giornali, un ex seminarista che viene dai liberali, con un passato da collaboratore di An, finito nello staff di Fassino, «con l’ambizione di farne pure il capo gabinetto nella prossima giunta», come spiega Stefano Rizzi, cronista dello Spiffero, il giornale on line che più di tutti ha seguito le vicende del comune.
Giordana è tutto e il contrario di tutto. Dopo il rifiuto di Fassino, dice Rizzi, Giordana punta sull’Appendino. E’ lui che la crea e la accompagna all’inizio del suo mandato, fino a quando non cade sulla telefonata per raccomandare un amico ed è costretto a dimittersi, visto che la sindaca - la sua creatura - manco ci pensa a difenderlo. Anche in questo, come nella distanza che prende dalla consigliera Deborah Montalbano che usava l’auto blu per i suoi comodi - troppe volte i 5 stelle si comportano semplicemente come tutti gli altri pseudo parassiti -, la Appendino dimostra una certa coerenza. Ma su altre cose no. E questo è forse il suo peccato più grave.
Perché il mito della sindaca brava, intelligente, che governa bene e potrebbe pure aspirare a Roma, si infrange non solo su Piazza San Carlo, ma anche sulle questioni di bilancio (quello del 2018 deve essere ancora approvato, e una parte dei suoi consiglieri le fa la fronda), sulla Gtt, l’azienda dei trasporti a rischio fallimento, sulla cultura e sui tagli alquanto assurdi che impone, bloccando in questo modo l’unica risorsa assieme al turismo nel nuovo progetto che deve darsi la Torino orfana della Fiat per guardare in qualche modo al suo domani. «Ma a lei manca proprio una visione sul futuro di questa città», dice ancora Rizzi, «manca un progetto, e la gente se ne accorge». In campagna elettorale aveva vinto perché aveva attaccato il sistema Torino. Di Francesco Profumo, possibile candidato sindaco pd in passato, nominato alla presidenza della Compagnia San Paolo, la cassa che eroga i contributi agli enti locali, lei aveva detto che rappresentava quel sistema e che quindi lo avrebbe cacciato. E in effetti appena si insedia, chiede subito la sua testa.
Ma Profumo - ex rettore dell’Università, fra l’altro persona degnissima e preparata - è ancora lì e lei oggi ci va a braccetto. Va a vedere le partite assieme a Evelin Christillin, e si allea in questo primo periodo a Chiamparino, presidente della Regione, uomo di grande esperienza, ex sindaco per due mandati, amico di tutti quelli che contano, come Marchionne, con cui giocava a poker quando sedeva ancora a Palazzo Civico. Non commette peccati. Anzi, fa pure bene, perché ha l’umiltà di riconoscere la sua inesperienza e cercare qualche spalla. Ma cambia la sua immagine. Purtroppo per lei ha ereditato la città più indebitata d’Italia («Noi spendevamo i soldi per un progetto», gli ha risposto Fassino, «lo facevamo per il bene di Torino». Che è vero solo in parte. La visione del futuro c’era ed era giusta. Ma quante cose avevano fatto e investito per la Fiat, sapendo benissimo che aveva già un piede fuori?). E’ costretta quasi solo a tagliare, anche se alcune cose riesce a farle o pensarle lo stesso: può vantare 96 alloggi del comune affittati a canone sociale per famiglie in difficoltà, riqualifica il parco Ruffini e il suo palazzetto, l’area Clessidra e piazza Benefica, e grazie ad Umia e all’assessore ai Trasporti Maria Lapietra avvia il progetto rivoluzionario, in una città industriale e asservita come Torino, della mobility card, per incentivare chi abbandona la macchina e «si muove in modo sostenibile».
Pensa pure all’allargamento della ztl, aprendola a tutti, ma a pagamento, con biglietti d’ingresso. Però, la spada di Damocle è quella del debito. Deve prendere soldi e tagliare. Così, quintuplica quasi il costo del parcheggio in centro per i residenti («da 40 a 180 euro all’anno, senza neppure la garanzia di trovare posto...», ci dicono), e dà une bella sforbiciata al bilancio della Fondazione Torino Musei, di 1,3 milioni di euro. Licenzia 28 dipendenti dai vari Musei, e dovrà pensarci la Regione dell’allora alleato Chiamparino a rattoppare le pezze in qualche modo. Minaccia di chiudere la Biblioteca della Galleria d’arte moderna, e il Borgo Medioevale, e siccome i centri commerciali portano soldi, dopo una campagna elettorale contro di loro, sarà costretta ad aprirne. Se sono errori, sono errori che non contano nel suo elettorato, è vero. Ma alla lunga sono peccati che si pagano. Alla presidenza della Fondazione aveva nominato Maurizio Cibrario, scelto e voluto. C’è stima reciproca fra i due. Ma dopo quella sforbiciata, anche lui sbotta: «Non si può tagliare sull’unico settore ancora produttivo della città. Lo dico da manager, è come buttare al vento 20 anni di storia».
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