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Di Maio stoppa Conte: ok alla riforma Cartabia. In parte modificata. Draghi tiene il passo

Il Cdm approva il testo all’unanimità. Una giornata di veleni e tentativi di far saltare il banco. Le 7 richieste dei 5 Stelle respinte: nel regime ordinario vanno anche reati contro la pa e quelli ambientali. La Commissione Giustizia ha chiesto due giorni per analizzare il nuovo testo. Domenica l’arrivo in aula (ore 14). Lunedì la fiducia.

Claudia Fusanidi Claudia Fusani   
Draghi, Cartabia, Conte e Di Maio (Foto Ansa)
Draghi, Cartabia, Conte e Di Maio (Foto Ansa)

Per usare le parole del ministro 5 Stelle Federico D’Incà mentre a sera, dopo lo scampato pericolo, torna lesto dentro Montecitorio, è stata “una di quelle giornate in cui la soluzione si trova all’ultimo minuto”. Quando il minuto prima sembrava che tutto dovesse saltare in aria. E per “tutto” s’intende la maggioranza che sostiene il governo Draghi.

Sulla riforma del processo penale, dossier simbolo per la tenuta della maggioranza e per la capacità di essere fedeli agli impegni presi in sede europea,  complici ritardi e pause forzate, nuovi rilanci e nuove trattative, per tutto il giorno fonti parlamentari 5 Stelle hanno fatto circolare concetti come “forte preoccupazione”, “verso l’astensione in consiglio dei ministri”, “ci conviene un anno e mezzo all’opposizione”, “Conte gioca al rialzo per poi andare a rompere”. Qualcuno, più d’uno, ci ha creduto e sperato. Ma poi intorno alle 18 e 30 è arrivata la fumata bianca che ha spazzato via la drammatizzazione più o meno artatamente alimentata nel corso di questi ultimi giorni. Drammatizzare e poi risolvere: è uno schema ormai noto, collaudato più volte in questi tre anni di legislatura. Difficile stabilire ieri il confine tra messinscena e realtà. Fondamentale il ruolo di Luigi Di Maio, ancora una volta mediatore e pontiere di una situazione che tra le 15 e le 17 è stata più volte sul punto di rompersi. “Conte rilancia sempre perchè ha il mandato a rompere” spiegava molto preoccupata l’ala governista. “Persino Luigi - aggiungevano - oggi è molto preoccupato. Dice che la situazione è difficile”. 

La mediazione

Al termine di una giornata di incertezza, in cui si sono susseguite voci di accordi e di rotture, la delegazione 5 Stelle non si è addirittura presentata in Cdm mentre un trafilato D’Incà faceva la spola tra i vari uffici,  la riforma è stata approvata all’unanimità dopo l’ennesimo appello alla responsabilità ai ministri presenti. A cui devono essere risuonate spesso, ieri, anche le parole del presidente Mattarella: “Avanti senza indugio sulle riforme”.   E quello che è diventato un mantra del premio Draghi: “Questo è un governo di unità nazionale e ciascuno deve rinunciare a qualcosa per l’obiettivo comune”. In questo caso la riduzione del 25% della durata dei processi. In Italia assai oltre la ragionevole durata prevista dalla Costituzione. I Cinque stelle fino all'ultimo “hanno tirato la corda” raccontano alcuni dei protagonisti della lunga giornata. Prima hanno rilanciato con la richiesta di includere alcuni tipi di reati (contro la Pa come la corruzione, ad esempio, e quelli ambientali) tra quelli i cui processi non sarebbero mai finiti sotto la tagliola della improcedibilità se i tempi dell’Appello e della Cassazione vanno oltre i due anni e un anno. Poi hanno detto no - anche qui con attese e ripensamenti - all’ipotesi di allungare i tempi dei processi per mafia, terrorismo, violenza sessuale e droga. Alla fine è stato trovato l’accordo unanime intorno a tre elementi: fase transitoria di entrata in vigore della norma; il concetto di “complessità” da cui dipende la durata di alcuni processi; il doppio binario per reati di mafia (regime differenziato per i reati del 416 bis comma 1), terrorismo, violenza sessuale e traffico internazionale di stupefacenti.

Lo schema della nuova prescrizione

Ad una prima lettura, ecco come è stato risolto il nodo invalicabile della prescrizione.  La riforma Cartabia prevede che la prescrizione si blocca dopo il primo grado (simulacro della Bonafede) e che a quel punto scatta la tagliola della improcedibilità per i processi: due anni in Appello e un anno in Cassazione. Per tutti i reati. Dopo vari passaggi e tira e molla, la mediazione adesso prevede che per i primi tre anni di applicazione della riforma (fino al 2024), la durata del processo d'Appello si estende per un ulteriore anno e quella del processo per Cassazione di ulteriori sei mesi. Accolta quindi la mediazione proposta dal Pd, il lodo Bazoli-Serracchini-Verini-Vazio.  Per i reati speciali - associazione mafiosa, scambio politico mafioso, associazione finalizzata allo spaccio, violenza sessuale e reati con finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico (questo ultime due tipologie pretese dalla Lega) - i giudici di Appello e di Cassazione possono con ordinanza, motivata e ricorribile in Cassazione, disporre l'ulteriore proroga del periodo processuale in presenza di alcune condizioni riguardanti la complessità del processo. Per i reati aggravati di cui all'articolo 416 bis, primo comma, la proroga può essere disposta per un massimo di 5 anni (nella fase transitoria) e quattro quando tutto sarà a regime. Qui, se andiamo in cerca di bandierine, sono state alzate quelle dei 5 Stelle. Le proroghe, tranne che per il 416bis primo comma, potranno infatti essere “infinite” per motivati profili di “complessità” (anche questa una soluzione indicata dal Pd). Sulla “complessità” decide il giudice e la sua pronuncia è ricopribile in Cassazione.  Italia viva ha ottenuto ciò a cui puntava da due anni e per cui sono già caduti due governi: la fine della prescrizione Bonafede, aggirata e affondata. “Il caro estinto – sintetizza Renzi  - è la riforma Bonafede, il match si è finalmente concluso e M5s ha perso”.

La scena della giornata

Si capisce meglio la drammatizzazione delle giornata se si visualizza la scena della giornata. Giuseppe Conte è entrato alle 10 a Montecitorio da via Uffici del Seminario e dalla sala Siani (gruppo M5s) ha guidato la giornata con stop and go e rilanci. La ministra Marta Cartabia è arrivata a palazzo Chigi alle 11 di ieri mattina (in attesa della riunione del Cdm convocata per le 11) e ne è uscita alle 19. A Montecitorio, anche fisicamente in mezzo alle due war room, i vari deputati seguivano via chat l’evoluzione della giornata. Qualcuno chiaramente preoccupato (“non andiamo ancora imparato nulla, la gente non ci capisce, c’è un accordo, lo abbiamo già votato e ora basta”). Altri tesi ma quasi consegnati ad un destino a loro modo di vedere “ineluttabile”: “Dobbiamo lasciare questa maggioranza. Conte ha questo mandato”. Difficile dire chi e cosa prevalga tra le due parti.  Il ministro D’Incà è stato colui che anche fisicamente ha fatto da pontiere tra le due rive del fiume 5 Stelle. Di Maio ha condotto la trattativa via telefono.

Alle sette di sera la scena divisa in tre “poli” si è così ricomposta. La ministra Cartabia, oggetto in questi giorni di attacchi via stampa di speciale violenza, è uscita da palazzo Chigi per spiegare, sorridente, ai giornalisti che “l’accordo è stato  raggiunto all’unanimità grazie a quelle modifiche tecniche in questi giorni di dibattito così vivace suggerite non solo dai vari partiti ma anche dagli ambienti giudiziari e dell’avvocatura. E’ un giornata importante. L’obiettivo della riforma è garantire una giustizia celere, nel rispetto della ragionevole durata del processo, e allo stesso tempo, evitare che i processi vadano in fumo espressione così in voga in queste ore”.

Quasi si fossero messi d’accordo, qualche metro più in là, Giuseppe Conte lasciava la war room nella sede del gruppo parlamentare dei 5 Stelle, e s’infilava nella gelateria Giolitti dove, anche lui sorridente, ha spiegato la giornata “dura, molto dura” e perchè il Movimento è “soddisfatto di aver salvato i processi per mafia” mentre gustava una granita all’amarena, faceva selfie con alcuni pugliesi in vacanza e offriva il gelato ad alcuni bambini.

Nè vincitori nè vinti 

“Nè vincitori nè vinti” si mettono le mani avanti a palazzo Chigi. Tutti i partiti hanno ottenuto qualcosa e rinunciato a qualcos’altro, il che consente a ciascuno di essi di affermare di aver vinto. La Commissione adesso avrà due giorni, a partire da stamani, per studiare le modifiche introdotte. La riforma è attesa in aula domenica primo agosto alle 14 per la discussione generale, orario e giorno decisivo per avere una discussione con i tempi contingentati. La fiducia dovrebbe essere posta tra lunedì e martedì.

Una curiosità. In serata, in Commissione giustizia, girava un foglietto. Con la lista delle richieste 5 Stelle che non sono state accolte. Sono sette. Respinta l’imprescrittibilità dei reati di mafia e terrorismo o comunque aggravati dal metodo mafioso e l’estensione ai reati contro la PA il cui limite massimo di durata, anche dopo il periodo transitorio, doveva essere esteso a 4 anni. Respinta la richiesta di “modificare la decorrenza del termine di durata in Appello, da non individuare nel momento dell’impugnazione”. E anche “la richiesta di abrogare la norma sui criteri generali indicati dal Parlamento alle procure” che i 5 Stelle erano sicuri di portare a casa (come il regime speciale per i reati contro la Pa). Nulla da fare per il giudice monocratico in appello per i casi meno gravi. Respinta anche la richiesta per cui, nel caso di processi con più capi d'imputazione e imputati plurimi, l'improcedibilità avrebbe seguito il reato più grave.

E’ una lista molto tecnica, che è stata messa nero su bianco per tenere a bada facili entusiasmi, narrazioni e ricostruzioni sbagliate. Ora resta da vedere se il tempo dei processi sarà alla fine veramente ridotto.

La conferma per Draghi. La prima prova per Conte

La trattativa sulla giustizia ha messo in evidenza due punti politici.  Draghi ha avuto un assaggio di quelle fibrillazioni politiche che si annunciano nel semestre bianco quando non sarà più possibile sciogliere le Camere e in cui, ha già spiegato, lui andrà comunque avanti a colpi di fiducia, se necessario. Una volta di più ha dimostrato il suo pragmatismo, per qualcuno decisionismo, ad ogni modo le sue capacità di imporre alla fine una decisione. Ha dovuto rinviare di qualche settimana i decreti sulla riforma fiscale e sulla concorrenza. Ma ha ascoltato chi gli ha suggerito (anche Salvini) di “combattere su un fronte alla volta”. Giuseppe Conte è stato alla sua prima prova da leader politico. Anche se ancora non ufficializzato (la votazione sarà la prossima settimana). Ieri, pur gustando la granita, sembrava più deluso che soddisfatto. Magari era solo stanchezza. Resta da capire se aver tirato la corda così tanto è una strategia precisa ma fine solo alla visibilità del Movimento o voleva veramente rompere. Ancora una volta lo stop è arrivato da Di Maio, il ministro degli Esteri molto cresciuto in questi anni come leader di tutto il Movimento. E’ un fatto che se Conte non voleva la diarchia con Grillo, adesso si ritrova come minimo in un triumvirato. Le votazioni in aula ne saranno la prova. Sulla tenuta dei gruppi, Conte si giocherà molto del suo futuro da leader. Anche rispetto alla sempre più sfilacciata alleanza con il Pd. Che sulla giustizia, pur avendo concesso molto in questi anni, lo avrebbe lasciato al suo destino.

Claudia Fusanidi Claudia Fusani   
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