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[L’analisi] L’azzardo di Di Maio: vuole dare ad un milione e mezzo di precari il posto fisso. Ma rischiano di perdere tutto

C'è un milione di posti di lavoro in più, rispetto al picco della crisi, ma si lavorano 1,2 miliardi di ore in meno. Più che part-time sono contratti a tempo, che scadono come le bottiglie del latte. Entro agosto scadono 892 mila contratti a tempo determinato, che andranno, o meno, rinnovati. Entro dicembre più di un milione e mezzo. Di fatto, con le nuove regole del decreto “Dignità” Di Maio fa una scommessa sulla ripresa e sulla necessità di personale delle imprese. Se la ripresa non si materializzerà, quei posti di lavoro, invece di tramutarsi in posti fissi, potrebbero sparire o l'imprenditore potrebbe semplicemente scegliere un altro lavoratore, ripartendo da zero

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci, editorialista   
Il ministro del Lavoro Luigi Di Maio
Il ministro del Lavoro Luigi Di Maio

Dopo settimane confiscate dalle cariche a testa bassa di Salvini e dalla faccia dura della Lega contro gli immigrati, l'anima sociale del governo gialloverde fa alla fine capolino con il decreto un po' pomposamente chiamato Dignità. Di Maio si fa trasportare dall'emozione e parla di “Waterloo del precariato”, ma è un esordio timido, rispetto alle attese e alle promesse, e mostra con cruda chiarezza le difficoltà che aspettano una coalizione nata da una sorta di testa-coda ideologico fra il ribellismo 5 stelle e il conservatorismo della Lega. Soprattutto se, come è il caso, non ci sono i soldi per limitarsi a sommare le rivendicazioni e tocca scegliere. Il decreto è, di fatto, l'esordio governativo di Di Maio. Attacca alcuni dei pilastri del Jobs Act, come a sinistra di Renzi si reclamava da tempo, senza smontarne l'impianto, ma suscitando immediati brontolii nel mondo delle imprese, soprattutto le più piccole, l'area in cui la Lega respira e cresce. Ma, allo stesso tempo, fondamentalmente per mancanza di coperture, non riesce a fornire a quelle stesse imprese la contropartita di significative e diffuse semplificazioni in materia di fisco. Il risultato di questa prima iniziativa del governo è che, dopo un lungo periodo di apatia, il panorama politico accenna a muoversi: le mosse sul lavoro, nel decreto e fuori, suscitano interesse a sinistra, come testimonia il plauso di Stefano Fassina e, con la delusione fiscale, rianimano l'opposizione di destra, ridando voce a Maria Stella Gelmini (Fi)come a Giorgia Meloni (FdI).

L'attacco al part time. Il dato incontrovertibile è che la ripresa, canalizzata attraverso la flessibilità del lavoro propiziata dal Jobs Act, ha prodotto un recupero dell'occupazione. Ma, almeno finora, soprattutto di quella precaria. Il sorpasso delle assunzioni a tempo determinato sui contratti fissi non è un fenomeno solo italiano e neanche solo europeo. Ma in Italia è più vistoso. Lo dicono i dati: c'è un milione di posti di lavoro in più, rispetto al picco della crisi, ma si lavorano 1,2 miliardi di ore in meno. Più che part-time sono  contratti a tempo, che scadono come le bottiglie del latte. Il 3 per cento dura meno di un mese, il 20 per cento non arriva a 3 mesi. Per il resto, un quarto sotto i sei mesi, un altro quarto arriva al massimo ad un anno. Sono spesso lavoretti, ma non si tratta di lavoratori qualunque. Un quarto sono laureati, metà sono al Nord e uno su due ha meno di 35 anni. Di fatto, è un'intera generazione che si ritrova con un piede dentro e uno fuori dal posto di lavoro. Per Di Maio, la risposta è “rendere più costoso il ricorso a questi contratti”. Sicuramente, il decreto lo rende più macchinoso. Oggi è possibile prolungarli fino a 3 anni, adesso il tetto diventa due anni, ma dopo i primi 12 mesi, in caso di rinnovo, bisognerà fornire una causale (improvvise esigenze produttive ad esempio) che giustifichino un'assunzione a tempo determinato invece che il tradizionale contratto fisso. In ogni caso, non sarà possibile rinnovare per più di 4 volte, nei due anni (oggi sono 5).

Una scommessa sulla ripresa. E' una misura pensata per la vasta platea di giovani in bilico sulla disoccupazione e tocca la vita quotidiana di centinaia di migliaia di famiglie. I conti, del resto, si faranno subito. L'effetto del decreto è, infatti, praticamente immediato. Entro agosto scadono 892 mila contratti a tempo determinato, che andranno, o meno, rinnovati. Entro dicembre più di un milione e mezzo. Di fatto, Di Maio fa una scommessa sulla ripresa e sulla necessità di personale delle imprese. Se la ripresa non si  materializzerà, quei posti di lavoro, invece di tramutarsi in posti fissi, potrebbero sparire o l'imprenditore potrebbe semplicemente scegliere  un altro lavoratore, ripartendo da zero. 

La puntata sui rider. Più di facciata, invece, l'altra misura in materia di lavoro. Di Majo si è guardato bene dall'inoltrarsi sul terreno minato dell'art.18 e del diritto a licenziare. Ma ha inasprito il deterrente contro i  licenziamenti senza giusta causa: tutto continuerà a risolversi con un indennizzo, ma questo viene sensibilmente aumentato e potrebbe arrivare fino ad un massimo di 36 mensilità. Nel decreto non c'è niente sui rider, ma un intervento, dicono al ministero del Lavoro, potrebbe rientrare in extremis nei 60 giorni di approvazione parlamentare. Di Majo sa che è tema di grande presa mediatica, ma si è mosso anche con astuzia. La proposta di un salario minimo e del riconoscimento dei diritti previdenziali è stata fatta in un dialogo diretto con i sindacati, richiamati al tavolo del confronto, dopo gli anni di esilio voluti da Renzi. Per il Pd e il suo radicamento sociale, un'altra partita difficile da gestire.

Il giro di vite sulle imprese. La stretta sui contratti a tempo determinato ha già suscitato brontolii. Come assai poco è piaciuta l'offensiva contro il ricorso facile alla delocalizzazione. Il decreto prevede che chi porta all'estero la sua fabbrica, pur avendo incassato sussidi pubblici nei cinque anni precedenti venga pesantemente multato: dovrà restituire (interessi legali compresi) una cifra fra 2 e 4 volte il sussidio ricevuto. E' un alto là, dove è evidente il principio a cui ci si ispira, meno quale possa essere l'impatto concreto. La fuga delle aziende italiane verso, ad esempio, la Romania è stata massiccia. Ma il decreto si applica solo alle delocalizzazioni future, un fenomeno oggi in vistoso calo.

Nel decreto, invece, è rimasto assai poco in materia di fisco, nonostante le attese della Lega. L'abolizione del redditometro era già prevista e, quanto alle comunicazioni sulle fatture Iva, complessivamente conosciute come “spesometro”, il decreto si limita a far slittare da ottobre a marzo la prossima comunicazione di dati. Si tratta, però, di capire cosa vuol dire. Nell'ottica in cui il governo Gentiloni aveva scelto di svuotare i due strumenti, la semplificazione che ne derivava per il contribuente aveva la sua contropartita in più penetranti controlli via banche dati. Bisognerà vedere se questo impegno resterà in piedi.

Non rassicura, da questo punto di vista, la scelta del governo di prendere di mira lo “split payment” ovvero il sistema per cui chi fornisce beni o servizi allo Stato lascia che sia lo Stato stesso a preoccuparsi di incassare direttamente l'Iva che gli spetta, senza fare la partita di giro attraverso le fatture del contribuente. Una misura semplice, che si è anche rivelata efficace, portando nelle casse pubbliche 2 miliardi di euro in più, che prima venivano evasi. Si era parlato di una eliminazione di questo sistema, ma, evidentemente, quei 2 miliardi di euro hanno convinto il Tesoro a puntare i piedi. L'abolizione per le imprese – per ora – non c'è. Solo per le partite Iva più piccole, quelle dei professionisti.

Il silenzio sul gioco. Anche il più distratto spettatore televisivo capirà subito che, con il decreto, il governo ha inferto un duro colpo alle casse delle televisioni. La pubblicità delle organizzazioni di scommesse è infatti uno degli spot più ricorrenti. Con il rischio di creare o aumentare forme di dipendenza dal brivido del gioco, come la ludopatia. Il decreto si muove tuttavia con cautela. Il silenzio pubblicitario non vale per i contratti in essere e, comunque,  per il più grande organizzatore di lotterie e scommesse, come lo Stato stesso. Gli spot sulla Lotteria Italia saranno in tv anche quest'anno.

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci, editorialista   
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