[L’inchiesta] Lo scacco matto di Di Maio: con la pensione di cittadinanza si prende gli elettori di Berlusconi

Cinquestelle vogliono alzare le pensioni minime a 780 euro a partire da gennaio. La platea dei beneficiati è la stessa che fu individuata dal governo di centrodestra nel 2001: metà sono al Sud e nelle Isole. Campania, Calabria e Sicilia le regioni che saranno più beneficiate. Così i pentastellati pagano pegno nei luoghi dove sono andati forte e lanciano un’opa sull’unica categoria che non li ha premiati, gli over 65. Tria non trova i soldi e Di Maio va in pressing: li pretendo. Rispunta la spending review di Cottarelli

Luigi Di Maio
Luigi Di Maio

Sembrava una promessa come le altre, buttata lì tra un tweet e l’altro. Invece sulla “pensione di cittadinanza” i Cinquestelle sembra proprio che vogliano giocare un pezzo importante della loro battaglia nelle prossime settimane. A battere i pugni a Palazzo Chigi, al primo vertice con Giuseppe Conte, Paolo Savona e Giancarlo Giorgetti per cercare di convincere Giovanni Tria, che era presente, a trovare le risorse necessarie per finanziare l’aumento delle minime era stata la viceministra Laura Castelli.

Nel braccio di ferro su “riforme” e conti pubblici, la richiesta di far partire a tutti i costi, dal primo gennaio, un primo (eventuale?) assaggio del “reddito di cittadinanza” che promettono da anni, potrebbe sembrare un ripiego, eppure non lo è affatto. La spiegazione del motivo per cui hanno scelto questa misura come una delle loro priorità è piuttosto semplice. Si tratterebbe infatti di un intervento che impatta per il 50% sulle Regioni meridionali dove i Cinquestelle hanno fatto il pieno di voti e raggiunge l’unica classe di età dove, sino ad oggi, i pentastellati hanno fatto più fatica ad affermarsi: gli over 65. Luigi Di Maio, vicepremier e ministro dello Sviluppo Economico, ha lanciato un messaggio chiaro: “D’orain poi non ci deve essere più nessun pensionato che prende meno di 780 euro al mese”.

L’ambasciatrice pentastellata a via XX Settembre aveva piegato il ministro, che aveva messo a disposizione tre miliardi di euro. “Io immagino sempre questo dibattito di fronte ai cittadini italiani. Ci sono dei pensionati minimi che in questo momento prendono 400 euro di pensione. A quei pensionati minimi noi stiamo dicendo: tutti coloro che vivono sotto la soglia di povertà e prendono la pensione devono avere almeno 780 euro al mese. Qualcuno ha il coraggio di opporsi a questa cosa?”, ha incalzato il vicepremier. La scelta del capo politico dei pentastellati è caduta sulle “pensioni di cittadinanza” e non sul mini-reddito di cittadinanza da 400 euro che pure era stato ipotizzato nei giorni scorsi dopo che, con l’aiuto dei tecnici del ministero, era stato realizzato uno studio sull’eventuale impatto dell’iniziativa. Di fatto l’intervento si traduce nell’aumento delle pensioni minime a partire dal primo di gennaio. “Qualcuno a gennaio deve ricevere qualcosa”, pretese l’economista pentastellata. E si comincia con gli over 65 del Sud, con un elettorato da conquistare in vista delle prossime Europee.

Gli ultimi dati - Istat - a disposizione rivelano che i beneficiari di pensioni integrate al minimo sono 3,6 milioni, il 22,2 per cento del totale dei pensionati. L’aumento, dunque, riguarda un pensionato su cinque. Ma il maggior numero di pensioni minime viene pagato soprattutto al Sud e nelle Isole: rispettivamente il 26,2 per cento e il 24,9 per cento. Circa 1 pensione su 4 da Roma in giù è minima. E si capisce, dal momento che nel Centro e al Nord generalmente chi ha lavorato con continuità ha potuto versare una massa superiore di contributi.


La platea attorno alla quale sta ragionando il governo, viste le ristrettezze di bilancio, è ancora più ristretta. E’ la stessa individuata dal governo di Silvio Berlusconi che, con l’articolo 38 della legge n. 448 del 28 dicembre 2001, aveva previsto un “incremento della misura delle maggiorazioni sociali a favore dei soggetti in condizioni economiche disagiate fino a garantire nel 2013 un reddito pensionistico pari a 631,87 euro mensili (8.214,31 euro annui) per tredici mensilità”, introducendo però precisi requisiti di età, di reddito e di reddito del coniuge. Nel 2013 il numero di beneficiari delle maggiorazioni decise allora era pari a 956 mila, il 5,8 per cento rispetto al totale dei pensionati. La proposta di Di Maio e dei suoi compagni di partito, che pure hanno così duramente avversato il Cavaliere, assomiglia moltissimo a quella e impatterebbe proprio sulla stessa platea.

La differenza è soltanto nella cifra degli assegni: 780 euro al mese. Questa operazione, rispetto agli aumenti decisi allora, è ancora meglio targettizzata sul Sud, dove il partito fondato da Beppe Grillo ha raggranellato percentuali che hanno lambito e in qualche caso superato il 60% dei consensi. I titolari di trattamenti minimi che prenderanno la “pensione di cittadinanza” secondo i primi calcoli fatti al ministero sarebbero infatti l’8,1 per cento del totale dei pensionati residenti al Sud e il 10,1 per cento del totale di quelli delle Isole, percentuali più che doppie rispetto a quelle del Nord Est, dove le pensioni minime sono soltanto il 4,1 per cento, e del Nord Ovest, dove si fermano al 3,9. “Per me è il riconoscimento della dignità della persona. La solidarietà verso i nostri concittadini più sfortunati per me è il primo dovere”, ha sottolineato il vicepremier ieri sera ospite di una trasmissione de La7.

Fatto sta che la quota di “pensionati con reddito pensionistico mensile inferiore ai mille euro si attesta intorno al 50 per cento” nel Sud e nelle Isole, un valore di circa 10 punti percentuali superiore a quello totale 41,3%. Se c’è un’area dove certamente le pensioni di cittadinanza non risulteranno indispensabili è invece la roccaforte leghista del Nord Ovest, dove quelle inferiori ai mille euro sono meno di una su tre. In Sicilia, Campania e Calabria, invece, il 60% delle pensioni è il risultato di trattamenti pensionistici anticipati o integrati, che fruttano cifre inferiori. L'impatto della misura, applicata alla stessa platea del passato, è valutato da 4 a 5 miliardi all’anno.

Tria non sa ancora dove prenderli. Nel corso dell’incontro teso di lunedì sera si è tornati a parlare di spending review. Il Piano di Carlo Cottarelli, il premier incaricato prima di Giuseppe Conte, con un precedente da “Mr Forbici”, finora era stato attuato solo in piccola parte. Dei circa 34 miliardi di risparmi previsti nelle proposte avanzate dal professore dell’Università Cattolica, nelle 72 slide presentate nel marzo 2014, quando a Palazzo Chigi c’era Enrico Letta, ne erano rimasti solo da 8 a 10. Ma sulla possibilità di reperire risorse importanti dai “risparmi” sulla spesa ora sembra scommettere molto l’altro viceministro, il collega di Laura Castelli, il leghista Massimo Garavaglia.

Se i Cinquestelle puntano a utilizzare “le pensioni di cittadinanza” per catturare voti al Sud - o per mantenerli, visti gli scricchiolii della loro base elettorale certificati dai sondaggi di queste settimane -, la Lega insiste invece sull’introduzione di “quota 100”, la soglia da raggiungere sommando età anagrafica e contributi per accedere alla pensione. Una misura che, se anche non cancella del tutto la “riforma Fornero”, oggetto degli strali e della minaccia di un referendum da parte di Salvini nel corso della campagna elettorale, tende almeno ad attenuarne l’impatto, favorendo soprattutto i lavoratori del Centro Nord che hanno alle spalle una consistente carriera lavorativa. Secondo Claudio Durigon, sottosegretario al ministero del Lavoro della Lega, per portare l’asticella a 62 anni di età basterebbero 6-8 miliardi per il primo anno, ma da altre parti, per la verità, si fanno stime meno ottimistiche.

Il costo dell’intervento sulle pensioni dovrebbe andare comunque a sommarsi con quello per l’avvio della flat tax in versione ridotta - a favore di partite iva e piccoli professionisti - che vale circa 3-4 miliardi, e con i 12,5 miliardi necessari per sterilizzare le clausole di salvaguardia sull’Iva, vera e propria spada di Damocle per tutti i governi. Si capiscono perciò, al di là delle dichiarazioni di facciata, le tensioni all’interno della maggioranza, e persino i rumors sulla possibilità che Tria possa gettare la spugna. Di Maio, però, butta acqua sul fuoco: “Non ho mai chiesto le dimissioni del ministro Tria”, ha detto ieri sera all’Ansa. Di certo c’è che da giorni si rincorrono le voci di un pressing dei Cinquestelle sul ministro che controlla la cassa e che gode della fiducia del Colle, preoccupato che l’abbandono del superministro possa far precipitare la fiducia degli investitori sul nostro Paese.

Le parole del capo del M5s hanno il sapore di un ultimatum: niente sfiducia, dice Di Maio, “ma pretendo che il ministro dell’Economia di un governo del cambiamento trovi i soldi per gli italiani che momentaneamente sono in grande difficoltà. Gli italiani in difficoltà non possono più aspettare, lo Stato non li può più lasciare soli e un ministro serio i soldi li deve trovare”. L’economista resiste e non intende cedere alle richieste di chi vorrebbe che l’Italia sforasse i parametri Ue. Il premier media, ma la soluzione del rebus-Bilancio sembra ancora lontana. Di tempo non ne resta poi moltissimo: il governo dovrà presentare la Nota di aggiornamento al Def entro il 27 settembre.