[L’intervista] “Vi spiego perché il decreto Di Maio sul lavoro aiuta solo gli avvocati. Ma sui raiders ha fatto bene”
Pietro Ichino, giuslavorista e padre spirituale del Job Act di Renzi commenta le norme contenute nel decreto dignità. Con critiche aspre e alcune aperture
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Decreto dignità, ovvero lotta contro il precariato. Di Maio ha dichiarato di voler smontare il Jobs Act e lo fa con due misure in particolare: l’aumento dell’indennizzo in caso di licenziamento illegittimo e la riduzione da 5 a 4 dei rinnovi possibili per i contratti a termine nell’arco di 36 mesi. Professor Ichino, lei cosa ne pensa?
“Se il governo si proponeva di disincentivare i contratti a termine aumentando l’indennizzo per il licenziamento c’è una contraddizione. Il datore di lavoro che assume un nuovo dipendente davanti alla minaccia di dover pagare 6 mensilità nel caso in cui le cose non vadano bene avrà in realtà ottimi motivi per assumere a tempo determinato anziché in modo stabile. Ancora, sui contratti a termine il governo introduce di nuovo la cosiddetta causale per le proroghe: significa che l’imprenditore deve indicare il motivo per cui assume a termine ma in caso di impugnazione sarà un giudice a valutare se quel motivo è valido o no. Questo introduce un’incertezza rilevante sull’ esito della controversia perché nessuno può sapere quale sarà l’orientamento del giudice su questo tema e questo porterà a un aumento del contenzioso. Il superamento della “causale”, nel 2014 aveva portato ad una riduzione del tasso di contenzioso di oltre i 2/3 portando l’Italia al livello degli altri paesi europei. Ora rischiamo un salto indietro nel passato, che fa bene solo agli avvocati. Se davvero il Governo vuole restringere il ricorso al lavoro a termine bisogna regolare la percentuale del lavoratori a termine, la durata massima del periodo di assunzione ma introdurre elementi di incertezza non è la tecnica giusta. Da questo punto di vista il mio giudizio sui contenuti del decreto è decisamente negativo”
Nel decreto c’è un forte disincentivo alle imprese che intendono de localizzare all’estero.
“Anche qui, se l’obiettivo è favorire l’afflusso e il mantenimento di investimenti verso il nostro paese occorre dare agli operatori internazionali l’immagine di un paese affidabile dove la normativa non è volatile. Viceversa stabilire di punto in bianco che dei contributi dati negli anni passati senza condizioni particolari da oggi in poi soggiacciono a nuove condizioni significa cambiare le regole in corso d’opera e questo non giova all’immagine del sistema Italia. Questa leva potrà servire per contrastare un singolo caso di delocalizzazione nell’immediato, ma nel lungo periodo ci rende meno appetibili per le imprese straniere e quindi complessivamente il saldo sarà negativo. Altro discorso sarebbe se queste misure fossero adottate solo con riferimento al futuro, ma risulta invece che le misure abbiano effetto retroattivo.
In parallelo prosegue il discorso aperto sulla regolamentazione del lavoro dei riders, questa nuova forma di precariato legata alle grandi piattaforme del web. Di Maio riuscirà a mettere un punto fermo su questo capitolo? Ed era giusto intervenire?
“Cominciamo col dire che il fenomeno del lavoro delle piattaforme digitali è venuto sviluppandosi solo negli ultimi anni. Quando nel parlamento discutevamo della riforma del Jobs Act ancora non aveva dimensioni apprezzabili. E’ dunque un fenomeno molto recente ed ha delle caratteristiche molto particolari, fra cui una marcatissima flessibilità che è però è reciproca: oltre che all’impresa, serve anche al lavoratore. Chi sceglie questo tipo di lavoro ha delle esigenze particolari di intreccio fra ore lavoro e ore di studio, tempo di cura, esigenze familiari. Secondo l’ indagine Inps l’85% dei lavoratori del settore, ovvero sei su sette, lavorano fra le 10 e 15 ore a settimana. Ed hanno interesse a scegliere se presentarsi o meno al lavoro di giorno in giorno. Queste peculiarità, che distinguono questa tipologia di lavoro da quello tradizionale di tipo subordinato non possono essere ignorate. Se si pretende di riportare questi rapporti in un alveo di rigidità il rischio è di soffocare questa forma di organizzazione del lavoro. Di Maio deve essersene accorto perché dopo aver preannunciato un decreto in cui i riders sembravano dover essere tutti lavoratori subordinati ordinari ha fatto un passo indietro lasciando che siano le parti collettive a regolare la materia in sede contrattuale. Mi pare che questa sia la scelta giusta. Sarà la contrattazione con le parti sociali, all’interno di un accordo collettivo nazionale, a trovare un accordo anche sull’entità della retribuzione minima e compatibile con le specifiche esigenze di questa forma di lavoro. Un intervento legislativo sarà comunque necessario per introdurre l’ assicurazione obbligatoria sul piano pensionistico e quella infortuni su lavoro. Probabilmente sarà necessario anche recepire in legge l’accordo riguardo al minimo retributivo che le parti stipuleranno. Ma guai se la legge dovesse oltrepassare il suo ruolo di sussidiarietà ed invadere il campo della contrattazione”.