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Delitto Matteotti cento anni dopo: un caso scomodo, meglio non ricordare

Numerose le iniziative private ma governo e Regione non ha destinato i soldi promessi. Nessuna iniziativa. L’imbarazzo della coincidenza del centenario con la campagna elettorale. Unica eccezione, al momento, è la celebrazione in aula alla Camera il 30 maggio, la data dell’intervento parlamentare che lo condannò a morte

Claudia Fusanidi Claudia Fusani   
Il palazzo di Roma dove abitava Giacomo Matteotti quando fu ucciso (Ansa)
Il palazzo di Roma dove abitava Giacomo Matteotti quando fu ucciso (Ansa)

Nella riunione di condominio ha prevalso il no: i residenti del bel palazzo in via Pisanelli 40 a Roma, zona Flaminio, hanno respinto la richiesta del Comune di Roma di sostituire la targa in memoria del loro illustre coinquilino Giacomo Matteotti con una nuova in cui viene esplicitato che “fu ucciso per mano fascista” e che è “un martire del socialismo e della democrazia”. Hanno detto di no. Problemi di dimensioni, quella nuova sarebbe 80 cm di larghezza e 90 di altezza, il doppio di quella attuale. Basta e avanza quella che già c’è: “Qui abitava Giacomo Matteotti quando uscendo di casa il 10 giugno 2024 andò incontro alla morte”. E’ una piccola targa affissa quindici anni fa su iniziativa di un privato che abita in zona. Nessuno ha mai detto nulla. E neppure è mai stata imbrattata. Già un successo visto che pochi anni fa (2017), a due passi dal palazzo, è stata vandalizzata la targa del Ponte Matteotti. Può darsi che il condominio cambi idea con qualche aggiustamento grafico.

Il decreto Franceschini

A Roma è un problema parlare del delitto Matteotti. E forse non solo a Roma. Così anche il governo e il Parlamento devono aver pensato che sia meglio volare bassi. Eppure nell’aprile 2022, era ancora ministro Dario Franceschini, il governo Draghi istituì il Comitato scientifico “con il compito di programmare, promuovere e curare lo svolgimento delle manifestazioni per le celebrazioni del centenario della morte di Giacomo Matteotti”. Un anno fa, il governo Meloni ha assegnato un budget, 350 mila euro. Ottimo, bene, si pensò. E però non risultano al momento celebrazioni in memoria. Non c’è un calendario di eventi, anche sparsi nell’arco dell’anno, per coltivare memoria e verità e anche chiedersi come tutto ciò sia stato possibile. Unica eccezione è la Presidenza della Camera che ha organizzato una giornata celebrativa il 30 maggio, lo stesso giorno in cui, un secondo fa, l’onorevole Matteotti prese la parola in quell’aula che due anni prima (1922) Mussolini definì “sorda e grigia” tanto che lui avrebbe già potuto trasformarla in un "bivacco di manipoli” ma, bontà sua, non lo aveva (ancora) fatto. La Storia non ha avuto dubbi ad assegnare a quel discorso la sua condanna a morte. Contestò la validità delle elezioni del 6 aprile precedente e della maggioranza che ne è scaturita. Denunciò le bastonature ai candidati avversari, i seggi elettorali composti di soli fascisti, i rappresentanti di lista impediti di entrare nei seggi stessi. Dimostrò, inoltre, come in sei circoscrizioni elettorali su quindici le firme da apporre davanti ai notai siano avvenute senza alcun controllo legale.

Il sequestro

Dieci giorni dopo, il 10 giugno, uscendo nel pomeriggio dalla casa di via Pisanelli per andare alla Camera - ci andava a piedi attraversando piazza del Popolo e poi il corso - fu rapito e poi assassinato da una squadra di fascisti capeggiata da Amerigo Dumini. Il corpo di Matteotti fu ritrovato circa due mesi dopo, il 16 agosto 1924. Il 3 gennaio 1925, di fronte alla Camera dei deputati, Benito Mussolini si assunse pubblicamente la “responsabilità politica, morale e storica” del clima nel quale l’assassinio si era verificato. A quel punto, nel giro di due anni, furono approvate le cosiddette “leggi fascistissime”, dalla supremazia del governo sul Parlamento alla soppressione della libertà sindacale e di stampa, dalla nomina governativa delle amministrazioni locali all’inasprimento delle norme di pubblica sicurezza. Furono anche fatti decadere i deputati che tra giugno e agosto avevano partecipato alla secessione dell’Aventino in protesta al delitto Matteotti.

Le interrogazioni parlamentari

Tornando all’oggi, come si diceva, a parte la commemorazione alla Camera voluta dal presidente Fontana e la targa allo scranno da cui pronunciò il discorso, non risultano in agenda altre iniziative del governo e del Parlamento. In realtà a marzo, grazie ad una interrogazione della deputata Quartapelle, si era scoperto che per errori procedurali i 350 mila euro non erano mai stati destinati. E però c’è stata molta solerzia per celebrare le Foibe e persino il Cuoco dell’anno, medaglia sul petto alla sovranità alimentare. Così come si è scoperto che altri e diversi errori procedurali hanno fatto sì che anche la Regione Lazio non è stata in grado di dare i soldi ed organizzare le celebrazioni.

Per fortuna ci hanno pensato i privati, a cominciare dalla Fondazione Matteotti, ad organizzare seminari e convegni. Alcuni parlamentari hanno pubblicato libri (uno su tutti, “Giacomo Matteotti, l’Italia migliore” di Federico Fornaro, ed Bollati Boringhieri). A Fratta Polesine (Rovigo) è stata restaurata la casa di famiglia e sarà inaugurata il 10 giugno con una guida speciale, la senatrice Liliana Segre.

La memoria e la Storia

Tocca interrogarsi, senza ipocrisie, se coltivare la memoria sia un vizio per non dire un lusso di cui si può fare a meno. Oppure un obbligo con molte utilità, ad esempio l’esperienza e quindi la possibilità di fare meno errori. Almeno non ripeterli.

Lascia stupiti e sbalorditi che sul delitto Matteotti si eviti persino di coltivare la Storia. Di ricordare ad esempio le fasi del processo. Chi sequestrò e poi uccise il segretario del Partito socialista unitario (nato dalla scissione con il Psi nel 1922) fu un gruppo di ex-arditi di guerra milanesi composto da Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo. Non sono mai state accertate ma erano quasi certamente presenti sul posto Filippo Panzeri e Aldo Putato. Del gruppo fa parte con funzioni di basista anche l’austriaco Otto Thierschald. Erano i componenti della cosiddetta Ceka, un corpo speciale agli ordini del vertice fascista che si occupava di avversari politici ostili anche ex fascisti dissidenti, deputati liberali e repubblicani. Il coordinamento della Ceka era affidato al capo ufficio stampa della Presidenza del consiglio Cesare Rossi e al segretario amministrativo del Partito nazionale fascista Giovanni Marinelli. Nulla poteva accadere però senza il via libera del vertice, cioè del capo della polizia Emilio De Bono che si occupava di coperture e impunità varie.

Gli uomini della Ceka furono arrestati e nel paese salì un’ondata di sdegno e rabbia, manifestazioni e cortei, titoli di giornali in edizione straordinaria, che mise in crisi il governo fascista che fu poi costretto alle leggi di censura e privazione delle libertà e dei diritti individuali. Mussolini li per lì impone a Rossi, Marinelli, De Bono di dimettersi dalle cariche ricoperte per allentare la pressione. In realtà condizionerà il processo, lo farà spostare di sede, cambierà i giudici. Il cadavere di Matteotti fu trovato solo il 16 agosto nel bosco che allora correva lungo la via Flaminia. Le perizie dissero che la causa della morte fu una coltellata diretto al cuore.

Il processo

La corte giudicò il delitto Matteotti come preterintenzionale, ammettendo persino “la concausa della debole costituzione fisica della vittima”. Dumini, Poveromo e Volpi vengono condannati a 5 anni, 11 mesi e 20 giorni. Con l’applicazione dell’amnistia, entrata in vigore il 31 luglio 1925, Malacria e Viola furono subito liberi, gli altri rimasero in carcere un paio di mesi. Un tempo in cui Mussolini in persona, come hanno rivelato alcune testimonianze, aveva provveduto al sostentamento delle famiglie. Nel luglio 1944 il processo fu riaperto e annullate le precedenti sentenze. Gli imputati dell’esecuzione materiale di Matteotti sopravvissuti e presenti erano solo Dumini e Poveromo; Viola è latitante, Malacria è morto. A Mussolini viene imputata la correità nel sequestro e nell’omicidio aggravato e qualificato di Matteotti, cui si aggiungono la costituzione della Ceka e le numerose spedizioni punitive compiute dal gruppo omicida, di cui viene riconosciuto come mandante. Cesare Rossi se la cava con l’amnistia. Dumini, Viola, Poveromo sono condannati all’ergastolo, con pena commutata in trent’anni di reclusione. Poveromo muore in carcere a Parma nel 1952; Dumini ottiene la grazia e viene definitivamente liberato il 23 marzo 1956.

Il bilancio dello Stato e gli affari

E’ rimasta senza una verità finale la parte delle indagini in cui era stato ipotizzato che nel movente del sequestro e dell’omicidio ci fossero anche questioni economiche. Di sicuro Matteotti avrebbe da lì a poco fatto in aula una denuncia pesantissima sulla gestione dei conti pubblici da parte di Mussolini. E sulla convenzione firmata dal regime con la Sinclair Oil. Anche su questa parte è uscito in queste settimane un utilissimo libro di Federico Fubini (L’oro e la patria, ed. Mondadori).

In una bella intervista a Repubblica ieri Laura Matteotti, la nipote di Giacomo, spiegava perché “il governo non ricorda mio nonno. Sono ancora fascisti”. Difficile dirlo. Di sicuro ricordare quell’omicidio politico e le conseguenze, è faticoso e sconveniente in piena campagna elettorale per le Europee. Meglio far passare in fretta e lontano dai riflettori queste “noiose” ricorrenze.

Claudia Fusanidi Claudia Fusani   
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