Italia in crisi: nell'era dei partiti liquidi la politica ha abbandonato il territorio
Dall'emergenza incendi a quella terremoto, dagli sbarchi agli sgomberi di migranti. La politica sembra incapace di trovare ricette per uscire dal caos. L'unico modo per invertire la rotta è tornare alla radice della rappresentanza

Quando è iniziato tutto questo? Quand’è che la politica ha cominciato a distaccarsi dalla realtà, rinunciando a misurarsi con i problemi concreti dei cittadini italiani da Nord a Sud dello stivale? Un tempo c’erano i grandi partiti di massa, capaci di assorbire le contraddizioni della società e di dialogare coi territori. Soggetti rappresentativi, a cui l’elettore era in grado di ricondurre specifiche azioni di governo e attribuire, nel bene e nel male, le relative responsabilità. Oggi tutto questo non è più vero. Le vecchie sigle non ci sono più, superate dal modello del “partito liquido”, destrutturato, virtuale. Allo straniamento dell’elettore medio, che fatica a riconoscersi dentro comunità sempre più social e sempre meno fisiche, corrisponde lo straniamento della politica rispetto ai territori. Da cui discende una crescente incapacità di leggere la realtà e di farvi fronte, con soluzioni incisive e di lungo periodo. Ilvo Diamanti ne parla su Repubblica, analizzando l’impotenza dei partiti che, abbandonato il presidio territoriale, appaiono come svuotati, privi di senso e di ruolo davanti alle emergenze che si susseguono, ormai senza soluzione di continuità, in questa estate interminabile. Dagli incendi al terremoto, dagli sbarchi di migranti allo sgombero coatto di piazza Indipendenza: a prevalere è una sensazione alienante, un inseguimento schizofrenico senza punti di caduta, senza che nessuno sia in grado di indicare un obbiettivo o una strategia da seguire.
“Il territorio, d’altronde, raccoglie e riassume la storia, l’economia, le relazioni, i modi di vita”, osserva giustamente Diamanti. “Per questo il nostro paese è stato osservato dedicando attenzione particolare alle distinzioni, piuttosto che agli elementi comuni”. Italia come somma di tante Italie, corrispondenti a diversi modelli economici e diverse istanze politiche: non soltanto il Nord operoso e industrializzato contro il Sud dello sviluppo assistito, ma anche il nord-est delle piccole e medie imprese, capace di spostare il baricentro della questione settentrionale in una rinnovata dicotomia tra stato centrale e periferie produttive. L’ex presidente Ciampi definiva il nostro come “un paese di paesi”, dove il principale elemento di unità sono proprio le differenze, la molteplicità.
Ma se la disgregazione raggiunge il territorio, allora cosa rimane? Qual è il legame che ci unisce? Quale il patto sociale da rispettare? Quale la comunità di destino entro cui riconoscersi per affinità di interessi, di valori e di cultura? Cambia (troppo) rapidamente la geografia sociale e quella politica del paese. Al posto dei vecchi partiti nascono i partiti personali, associazioni temporanee di interessi, non più espressione della rappresentanza sociale, né dei suoi legami col territorio, con le sue vocazioni, con le sue tradizioni, con le sue legittime istanze.
Questa disgregazione è tutta interna alle forme della politica, mentre il territorio è dotato di una sua propria resilienza (l’esito del quesito referendario, che ha sonoramente bocciato una proposta neocentralista non in grado di fornire adeguate garanzie di tutela ai territori italiani, lo dimostra). Una politica semplificata, estetizzante, “liquida” e “de-ideologizzata” a partire dalla rinuncia alla rappresentanza ideali e degli interessi delle classi di riferimento, arroccata nella difesa indeterminata dei diritti ma incapace di definire le dinamiche fra dominanti e subalterni, di dettarne le regole di convivenza, di darsi un ordine di priorità e di percorsi credibili. “Il principale interprete di questa stagione, non a caso, è il M5S, che non ha uno specifico retroterra ideologico” dice Diamanti “né una geografia elettorale precisa”.
Accade così che a proposito dello sgombero a Piazza indipendenza, la Sindaca della Capitale Virginia Raggi chiami in causa il presidente della Provincia Nicola Zingaretti in un rimpallo di competenze che arriva fino al Governo e in cui l’unica verità vera è che in quattro anni nessuno, ma proprio nessuno, da destra a sinistra si è sentito di sbucciare la patata bollente, ledendo contemporaneamente i diritti dei rifugiati ma anche quelli, sacrosanti, dei pensionati proprietari dell’immobile. In questa indeterminatezza, l’unica a rimetterci davvero è, insieme alla legalità, la tutela della democrazia. E' ancora possibile prima che sia troppo tardi, invertire questa tendenza. Prima che il processo diventi irreversibile, occorre che la politica si dia nuovi punti di riferimento, che ricostruisca la geografia della rappresentanza e quella della responsabilità.
Se non lo faranno, anche i partiti e i movimenti che finora hanno tratto maggior beneficio dalla mancanza o dal rifiuto di una collocazione, prima o poi verranno abbandonati da un elettorato sempre più scontento, ansioso di identificazione e di sentirsi rappresentato magari in nuove aggregazioni, dentro il paradigma sociale.