"Non votiamo la fiducia": lo strappo di Conte e M5S, Draghi verso la crisi di governo nel momento peggiore
Il capo politico dei grillini costretto dall'ala dura a non votare il Dl Aiuti. Il premier non arretra, muro contro muro mentre c'è la guerra e il Recovery da realizzare
I 5 stelle non voteranno la fiducia al decreto aiuti, lo ha annunciato il leader Giuseppe Conte – con una foga e una aprendo l'assemblea congiunta dei parlamentari pentastellati al termine di una giornata convulsa e contraddittoria. Il governo è ora ad un passo dalla crisi. L'orientamento era emerso nel corso del Consiglio nazionale dei pentastellati. Non sono bastate le promesse di un nuovo patto sociale e di nuove misure contro i bassi salari a convincere il M5s e alla vigilia del voto di fiducia in Senato il partito si divide su una decisione sofferta che potrebbe essere prodromica ad altri "strappi" dentro al Movimento, sancendo la rottura netta con il governo Draghi.
"Senza di voi il governo è finito"
Senza un appoggio chiaro, avrebbe ribadito il premier direttamente a Conte nel corso di una telefonata, l'esperienza del governo è da considerarsi finita. Il Pd e la Lega lo mettono a verbale, qualsiasi strappo segnerebbe la fine dell'esperienza a Palazzo Chigi. E si andrebbe - avvertono Salvini e Letta - dritti verso nuove elezioni. Con il partito di via Bellerio che rimarca: "senza il voto dei pentastellati la maggioranza non c'è più". E Giorgia Meloni che aggiunge: "Basta, pietà. Tutti a casa: elezioni subito!". In più, Salvini fa sapere che, sul punto, “c’è piena sintonia tra Salvini e Berlusconi”. Oggi, intanto, riunioni dei vertici di tutti i partiti, in attesa che si materializzi il voto al Senato e che – subito dopo – Draghi salga di sicuro al Colle, cosa che probabilmente farà subito dopo il voto.
Le parole di Conte in un’assemblea infuocata
In Senato "non possiamo che agire con coerenza e linearità" rispetto a quanto fatto alla Camera sul dl aiuti, "i cittadini non comprenderebbero una soluzione diversa", ha spiegato Conte, in un’assemblea calda, infuocata, interrotta da lunghi applausi, ma che Conte, mentre parla, vive plasticamente con sofferenza, sudando e alzando la voce, impuntandosi sulla voce, il volto segnato, che nella telefonata con Draghi ha registrato "la sua disponibilità" ma senza accontentarsi di "impegni: occorrono concrete misure". L'ex premier rivendica al M5s il ruolo di "unica forza politica che sta incalzando il governo sulle emergenze", e anche l'importanza del Reddito di cittadinanza, avvertendo - anche alzando la voce - che "non permetteremo mai che venga smantellato". La difficoltà di prendere la decisione dell'Aventino per il M5s è stata evidente: il Consiglio nazionale, convocato di buon mattino, dopo cinque ore è stato costretto ad aggiornarsi. I vertici sono tornati a vedersi in serata, e poi si sono riuniti anche senatori e deputati. Per la linea ‘dura’ erano in quattro vicepresidenti su cinque (tutti tranne la Todde), un capogruppo su due (Castellone sì, Crippa no), la maggioranza dei senatori (50 circa su 62) e, però, meno della metà dei deputati (105 in tutto).
Muro contro muro
Conte ha sentito il premier che resta irremovibile sulle posizioni espresse pubblicamente il giorno prima in conferenza stampa, o dentro o fuori. La stella polare dell'esecutivo è "fare", su gran parte dei nove punti dell'agenda cinquestelle il premier ha dichiarato di registrare "convergenze" ma quello che viene considerato inaccettabile è ricevere diktat, da chiunque. E la palla è tornata inesorabile nel campo dell'avvocato: 'farò quello che posso', avrebbe chiosato al termine del colloquio, secondo quanto riferito in ambienti parlamentari. Ma Conte si è trovato di fronte ad un bivio cruciale: chiedere di votare sì nell'Aula di Palazzo Madama ai suoi e rischiare di spaccare senza ritorno il Movimento, compromettendo la sua leadership; oppure assecondare chi da giorni è in pressing per consumare una rottura definitiva con Palazzo Chigi. Ha prevalso la seconda strada.
Le reazioni pesanti delle altre forze politiche
Ma le pressioni su Giuseppe Conte non sono certo solo interne. Il segretario del Pd indica una "svolta" nell'azione del governo che sarebbe irresponsabile non sostenere: "metterlo a rischio ora sarebbe paradossale", dice anche lui ai suoi deputati e senatori convocati subito dopo pranzo in una riunione congiunta a Montecitorio. Da parte del Pd non ci sono ricatti né ripicche ma se il M5s fa cadere il governo si "va al voto". E il sospetto dei dem è che ormai questo sia anche l'obiettivo del centrodestra. Lo dice chiaramente Giuseppe Provenzano, il vice-segretario: "stanno provando a cogliere l'attimo, ai 5S chiediamo di non fargli questo regalo". Salvini professa lealtà ma assicura anche di non essere disponibile a fare la caccia ai "responsabili" in Parlamento. "Meglio - dice - far votare gli italiani che far passare loro 9 mesi sulle montagne russe. Se i 5 stelle faranno una scelta parola agli italiani".
La cautela del Carroccio
Ma dentro la Lega affiorano posizioni più prudenti: il governatore del Veneto Zaia e quello della Lombardia Attilio Fontana - arrivati a Roma per incontrare proprio Draghi e parlare delle olimpiadi invernali Milano-Cortina – affermano chiaramente di puntare sulla continuità. "Se si può andare avanti anche senza M5s? Giro la domanda - risponde ai cronisti il primo - al presidente Mattarella che, come prevede la Costituzione, sentirà le forze politiche, vedrà i numeri e deciderà". Ancora diversa, a dire il vero, la posizione di FI: prima Silvio Berlusconi e poi Antonio Tajani si dicono convinti che anche senza il M5S i numeri ci siano per continuare". Ma quello che "non può' esserci - aggiungono - è un altro presidente del Consiglio".
Il ‘triangolo’ Draghi-Mattarella-Parlamento
Il divertente, o l’assurdo, è che i 5Stelle si dicono pronti però a rinnovare la fiducia a Draghi e confermare la presenza dei ministri M5s al Governo se Draghi la prossima settimana tornasse in Parlamento a verificare i numeri della sua maggioranza, assumendo nel suo discorso i punti indicati nel documento Cinque stelle consegnato a Draghi nell'incontro di lunedì scorso. Insomma, formalmente quella dei 5Stelle non è una ‘crisi’ formalmente aperta, quella deve aprirla Draghi.
Non c'e' una alternativa a questa maggioranza di governo, "per me non c'è un governo senza M5S, ne' c'è un governo Draghi". Queste le parole pronunciate dal premier, al termine dell'incontro con i sindacati. Ed è la linea che ogni probabilità Mario Draghi manterrà anche domani, dopo che l'annuncio del M5S di non votare la fiducia al Senato sul Dl Aiuti, si tradurrà in pratica con l'uscita dei parlamentari pentastellati dall'aula di palazzo Madama. E' molto probabile che il premier, subito dopo il voto del Senato (che comunque confermerà la fiducia al governo e il via libera al provvedimento, anche se senza i voti del M5S), andrà dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per riferire della situazione della maggioranza.
Draghi verso l'intenzione di lasciare
La linea di Draghi dunque, ribadita ancora ieri, sarebbe quella di non procedere con la ricerca di una nuova maggioranza parlamentare e, dopo la decisione di Giuseppe Conte, di concludere quindi l'esperienza di governo. Alla domanda dei cronisti che ieri chiedevano di un eventuale ritorno alle Camere in caso di defezione del M5S, Draghi aveva risposto: "Su questo dovete chiedere al presidente Mattarella". Il colloquio con il capo dello Stato sarà quindi determinante per capire quali saranno le sorti dell'esecutivo e la tempistica di una eventuale crisi. Draghi ieri aveva dribblato anche la domanda sulla eventualità di uno scioglimento anticipato del Parlamento e di elezioni in autunno: "Non commento scenari ipotetici, anche perché sono parte di quel che succede, essendo uno degli attori il mio non sarebbe un giudizio oggettivo e distaccato", aveva risposto il premier.
Se invece i partiti accettassero il comportamento del M5s e Mario Draghi si facesse bastare il non voto contro il suo provvedimento, come molti consigliano in queste ore, le ipotesi si ridurrebbero a due. Il premier potrebbe presentarsi comunque dimissionario dal Capo dello Stato per essere poi rinviato alle Camere, oppure potrebbe salire al Colle per un confronto con Mattarella ma senza dimettersi e chiedendo lui per primo un chiarimento alle sue forze politiche attraverso un nuovo voto di fiducia.
Le carte in mano a Mattarella
E' noto che chi ha parlato con il Colle ha trovato preoccupazione per una situazione inedita ma non impossibile: con una campagna elettorale tra ombrelloni e creme solari, mentre la pandemia torna ad avere numeri da tenere sotto controllo, la guerra in Ucraina non è alle fasi finali, l'inflazione morde il potere d'acquisto e il Pnrr deve essere completato. Ma ipotesi, scenari, percorsi già prestabiliti non sono la consuetudine del Presidente, che solitamente quando si è alle viste di una crisi ascolta tutti e valuta le possibilità in base agli elementi reali che ha sulla scrivania. Anche perché sa bene che spesso un conto sono le dichiarazioni fatte con enfasi ai microfoni e ai taccuini dai leader, altra cosa sono quelle sussurrate al suo orecchio nello studio al Quirinale. Dunque, prima si dovrà attendere il voto di domani, poi le decisioni dei diversi attori della piece, e solo a quel punto si capirà se il Presidente dovrà muoversi e come. Con due punti cardinali ben precisi: la Costituzione, con le diverse declinazioni della prassi costituzionale, e la stabilità del Paese. Prima di allora, prima del voto di oggi, al Quirinale non vola una mosca, nessun alito vento giunge dall'alto per non interferire in una dialettica tutta tra il governo e la maggioranza.
“Il giorno più lungo” di Draghi e di Conte
Se fosse un film potrebbe intitolarsi “Il giorno più lungo” (Usa, 1962), che raccontava i momenti più drammatici dello sbarco in Normandia, e non “Salvate il soldato Ryan”, che parlava – in modo ancora più truculento di quelle stesse giornate – perché non si capirebbe chi è ‘il soldato’ da salvare, tra Draghi e Conte. Certo è che la giornata di ieri, per Mario Draghi e Giuseppe Conte, alla vigilia del voto in Senato sul decreto Aiuti che potrebbe sancire la sopravvivenza o meno del governo è stata vissuta sul filo della tensione e a rischio di spargimenti di sangue.
Di buon mattino il leader del Movimento 5 stelle riunisce il Consiglio nazionale per prendere una decisione su come comportarsi oggi in Aula. Una decisione che però non arriva dopo un confronto fiume di 5 ore, tanto che l'organismo viene riconvocato per le 19.30, prima dell'assemblea congiunta di deputati e senatori. All'interno del Consiglio, così si apprende, sarebbe prevalsa la linea di non votare la fiducia, ma serve un supplemento di riflessione. Anche perché dagli alleati aumenta il pressing sui pentastellati: "Se una forza importante come M5s lascia il governo si va al voto", fa sapere Enrico Letta, per una volta d'accordo con Matteo Salvini, secondo cui "se domani il M5s non vota il decreto, fine, basta. Mi sembra evidente che si vada a votare". Parole che potrebbero aver suggerito a Conte l’idea di frenare appena prima dello schianto finale.
La ricerca di una mediazione
I due percorsi ‘paralleli’ di Draghi e Conte trovano un punto di contatto nel primo pomeriggio, quando i due si parlano al telefono, forse alla ricerca di un'ultima possibile mediazione. Sia da Palazzo Chigi che da Campo Marzio, quartier generale pentastellato, non trapelano indiscrezioni sui contenuti della telefonata. Epperò, ci sarebbe stato un ulteriore confronto sul documento in 9 punti di Conte e il premier potrebbe aver ribadito, come fatto anche ieri in conferenza stampa, che ci sono "significative convergenze" tra quelle richieste e l'agenda del governo. Ma anche che tutto non si può fare perché i conti pubblici non possono essere ulteriormente stressati. Poco dopo la telefonata il presidente M5s esce di casa e si diffonde la voce di un faccia a faccia tra i due, ma l'ex premier non arriva a Palazzo Chigi, che Draghi lascia prima delle 18, non si sa per dove.
Il possibile esito del voto di oggi al Senato
Nel frattempo, Conte perde un altro deputato che preferisce entrare nel gruppo di Luigi Di Maio e non assecondare la linea della crisi: è Francesco Berti, che due giorni fa aveva votato a favore del dl Aiuti alla Camera. Potrebbe non essere l'unico a schierarsi a favore della linea governista. Si parla già di almeno dieci senatori e altrettanti, se non di più deputati, pronti a rompere con il M5s, nel caso di rottura con il governo, ma anche di 30 senatori ‘irriducibili’ pronti a votare no lo stesso. Se la telefonata di ieri possa essere stata un punto di svolta si saprà solo in serata, quando Conte aggiornerà il Consiglio nazionale e poi i parlamentari, con i deputati più 'governisti' e i senatori più spostati verso la linea dura. Nella notte, presumibilmente, arriverà la decisione e non resterà che aspettare la cronaca dell'Aula.
Le ipotesi per uscire dalla crisi
Al momento, sulla via d'uscita dal cul de sac del voto di oggi sulla fiducia al governo che verrà posta in mattinata a Palazzo Madama circolano varie ipotesi: uscire dall'aula, che però non basterebbe a scongiurare una crisi, almeno secondo quanto ha ribadito ieri il premier. Oppure lasciare liberi i senatori e "impegnare" sul governo soltanto il capogruppo, spiegando poi che il Movimento non intende sfiduciare il governo ma solo marcare il dissenso su questo provvedimento e in particolare sul famoso "inceneritore" (in realtà un termovalorizzatore) di Roma. Ma la rassicurazione basterà a Draghi per restare? E soprattutto cosà farà il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, se dovesse veder salire al Colle nuovamente il premier? Costituzione alla mano se i numeri ci sono, ossia c'è una maggioranza in Parlamento, nulla osterebbe ad andare avanti, per questo al momento il Colle più alto non può far altro che osservare il dispiegarsi della dinamica parlamentare. Saranno i partiti e soprattutto l'ex governatore della Bce a decidere se andare avanti o considerare conclusa l'esperienza di governo.
I possibili tre scenari della crisi da oggi in poi
Nessuno, nel Transatlantico, dubita che, oggi, dopo il voto al Senato sul dl Aiuti, con la sicura uscita dall’Aula del gruppo dei pentastellati, Draghi non salga al Colle. Già, ma per fare cosa?
Scenario uno. Dimissioni irrevocabili. Draghi molla e Mattarella, dopo un inutile giro di consultazioni, con una crisi formalmente aperta, non può che mandare il Paese a urne anticipate. Si vota, dati i tempi tecnici (60 giorni di media tra scioglimento delle Camere e comizi elettorali), a inizio ottobre, Parlamento nuovo in carica dopo 20 giorni. Nuove consultazioni, nuovo governo. Nel mezzo, il governo Draghi dimissionario – o un governo Franco, titolare del Mef, o un governo di soli tecnici, magari guidato da Giuliano Amato, che ‘imposta’ la manovra economica, fa i conti, ma poi la vara il nuovo governo, quello ‘politico’ uscito dalle urne. Probabilmente di centrodestra. Sembra lo scenario più ‘pazzo’, di certo è quello che Mattarella cercherà di evitare in tutti i modi, ma Draghi ne ha “le tasche piene” di Conte, come pure di Salvini, e non vuol cedere da quanto detto né finire in balia di Salvini-Berlusconi, più Letta, modesto junior partner, che peraltro direbbe no.
Scenario due. I 5Stelle assicurano che il loro ‘non’ voto sul dl Aiuti non fa venir meno la maggioranza di governo. Mattarella rispedisce Draghi davanti alle Camere, la maggioranza c’è. Si va avanti, in qualche modo, previa, però, “verifica di maggioranza”, chiesta da Lega e FI, e probabile rimpasto. Draghi finirebbe ostaggio dei ‘due capponi’, Conte e Salvini, ma “per il bene supremo e l’interesse nazionale” andrebbe avanti. Il governo fa la manovra e null’altro. Il voto, comunque, arriva presto: a febbraio-marzo 2023.
Scenario tre. Nasce un nuovo governo, senza i 5s, che si basa sull’asse Lega-FI, preminente, sul Pd (minore) e sugli altri gruppi (Iv-LeU-Ipf-CI-etc.) sempre per fare la manovra e la legge elettorale, quella ‘nuova’ di cui si parla tanto da settimane. A guidarlo potrebbe essere Draghi o un altro. Uno scenario politico, però, che sa molto dell’irrealtà.