Ecco perché per il governo Conte è gennaio "il più crudele dei mesi"
Una corsa ad ostacoli attende l’esecutivo e la sua maggioranza tra dossier caldi (la giustizia), elezioni (l’Emilia) e referendum. E lo spettro del voto anticipato
Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha chiuso il 2019 con la tradizionale conferenza stampa di fine anno, dove ha presentato “l’agenda 2023” del governo come se, appunto, il suo governo dovesse durare l’intera legislatura (iniziata a fine marzo 2018 ‘scade’ agli inizi del 2023) e come se vi sia certezza che il governo Conte II riuscirà a completare tutti e 29 i suoi punti programmatici, magari con “il passo del maratoneta” come dice lo stesso premier. Ora, specie nei bilanci di fine anno vecchio e inizio anno nuovo si tende a lastricare la strada del proprio futuro di buoni propositi (vale per i singoli come vale per i governi), ma certo è che, stante gli attuali rapporti conflittuali interni alla maggioranza, più di un osservatore nutre dubbi che il Conte II riuscirà a portare a termine tutti i suoi impegni e ad arrivare alla conclusione, naturale e ordinata, della legislatura. E se è vero che non bisogna mai mettere limiti alla Divina Provvidenza è anche vero che se il buongiorno si vede dal mattino, dopo i primi ‘cento giorni’ di governo è difficile pensare che ne restino molti di più, all’attuale maggioranza e all’attuale governo. In ogni caso, lo snodo vero della sopravvivenza del governo e della maggioranza gialloverde sta tutto nel mese di gennaio che sarà – come diceva il poeta Eliot, anche se egli si riferiva ad aprile – “il più crudele dei mesi”. Tanti, e tutti intricati, infatti, sono i temi, le scadenze e gli appuntamenti che prevede il mese di gennaio 2020. Dalla loro risoluzione dipenderanno le sorti del governo, della maggioranza e possibili nuove elezioni. Ove mai il governo riuscisse a scavallare il mese di gennaio allora sì, invece, che sulla sua ‘lunga’ durata si potrebbero aprire consistenti scommesse. In senso positivo, per Conte, il quale – pur assicurando di non voler fondare “partiti” e di non voler essere “divisivo” – fa sapere che non intende “ritirarsi a fare il Cincinnato”, ma resterà in campo a “fare” politica. Insomma, se tutto dovesse precipitare verso le urne ci sarebbe ancora lui, Conte, a giocarsi un ruolo da protagonista con ogni certezza nel campo del centrosinistra. Ma qui si entra davvero nel campo delle ‘profezie’ alla Nostradamus perché non si sa, appunto, se il governo avrà la forza di superare la corsa ad ostacoli che si trova davanti e che si giocherà tutta nel ‘caldo’ mese di gennaio del 2020. Ecco gli appuntamenti e le scadenze politiche principali.
2 o 3 gennaio. Il giuramento dei nuovi ministri
Il giuramento dei nuovi ministri della Scuola e dell'Università e Ricerca, Lucia Azzolina e Gaetano Manfredi, che vanno a sostituire, in due, una sedia sola, quella del dimissionario Lorenzo Fioramonti (ormai ex M5S) si terrà i primi giorni di gennaio, ovviamente nelle mani del presidente della Repubblica. Non è stato il massimo annunciare i loro nomi in diretta tv, prima ancora di comunicarli al Capo dello Stato, ma tant’è. Non saranno nominati nuovi segretari ma il ministero che era di Istruzione, Università e Ricerca si sdoppia. Servirà un decreto legge (un dpcm) che spacchetti le competenze oggi in capo al Ministero unico e, ovviamente, la nomina e il giuramento dei due nuovi ministri al Quirinale. Il governo passerà da 21 a 22 membri ma viceministri e sottosegretari, che erano 42, scenderanno a 41 perché, appunto, la sottosegretaria Azzolina, promossa ministra, non verrà sostituita. In totale, i componenti dell’esecutivo saranno 63 (erano 64 nel Conte I). Il governo più magro di tutti, dal 1992 in poi, è stato quello Monti (47 membri) e il più grasso il II governo Prodi che contava ben 102 posti. Un segno di stabilità, certo, la nomina dei due nuovi ministeri, sperando che non si mettano subito a litigare come, fin troppo spesso, accade tra i ministri dell’attuale governo.
7 gennaio, il primo vertice ‘caldo’ è sulla prescrizione
Ma sarà la giustizia, e in particolare la prescrizione, la prima tappa dello slalom di gennaio, per Giuseppe Conte. Tappa spinosissima, perché M5S, Pd e Iv viaggiano su binari lontanissimi e il rischio è che lo stallo sulla riforma Bonafede inquini sul nascere il confronto nel governo. Il vertice sulla giustizia è previsto il 7 gennaio. I dem sono scesi in trincea. L'obiettivo, per Conte, è fare in modo che il vertice del 7 non si trasformi in un'ennesima fumata nera. “Bonafede faccia un passo di lato” è l'invito del ministro Francesco Boccia che dà al Guardisigilli due mesi di tempo per trovare un punto di caduta “o andremo avanti con la nostra proposta di legge”, avvertono i dem i quali, se non si trovasse un accordo, potrebbero anche votare la pdl Costa.
Ma la riforma Bonafede, con lo stop alla prescrizione dopo il primo grado di giudizio, il 7 sarà già scattata perché parte dal primo gennaio. Il Pd ha presentato, lo scorso 27 dicembre, una sua controproposta, di fatto un ritorno alla legge Orlando (ex ministro della Giustizia di casa dem), ma per ora non ha trovato che orecchie sorde, in casa dell’M5S. Il premier Conte, sul punto, è schierato con il suo ministro e si limita ad assicurare che “introdurremo garanzie per la durata ragionevole dei processi”. Il ddl del Pd, invece, è critico non solo a parole, ma nel concreto, alla riforma Bonafede prevede per le sentenze di condanna una sospensione solo temporanea della prescrizione (fino a due anni dopo il primo grado, più un altro anno in caso di ricorso in appello e in Cassazione). L’intesa di merito appare molto difficile, quella politica ancora tutta da trovare. A complicare le cose ci si sono messi i renziani. Contrari alla riforma ma anche alla proposta del ddl del Pd, definita una modifica “marginale e non risolutiva” dal coordinatore nazionale di Iv, Ettore Rosato. “Se non ci saranno novità – annuncia sempre Rosato – nel vertice del 7 Iv voterà in aula il ddl del deputato di FI Enrico Costa”. Il quale ddl, però, si propone un obiettivo molto più drastico: “sopprimere” la riforma Bonafede facendola slittare di un anno. Il gruppo di FI chiederà la calendarizzazione in aula del ddl Costa per il mese di gennaio: se Iv dovesse votare con FI e il centrodestra, sul punto, sarebbe crisi di governo.
12 gennaio, scatta il referendum consultivo sul taglio dei parlamentari
E’ il giorno in cui scade il termine per la presentazione delle firme necessarie per chiedere il referendum costituzionale contro il taglio dei parlamentari, la cd. “riforma Fraccaro”, che prevede 600 parlamentari (400 deputati e 200 senatori) in luogo degli attuali 945 (630 deputati e 315 senatori elettivi). Nei giorni scorsi il quorum (64 firme) è stato raggiunto in Senato, ma fino al 12 gennaio è possibile che qualche parlamentare, magari su pressione dei partiti di appartenenza, ritiri la propria adesione. Sull'esito della consultazione referendaria ci sono pochi dubbi (il taglio dovrebbe essere confermato dal voto), ma - nell'attesa delle urne (il referendum è confermativo, quindi non slitta in caso di elezioni politiche anticipate e, una volta indetto, verrà convocato dal governo in una data comprese tra fine aprile e metà giugno) - potrebbe crescere la tentazione dei parlamentari di far cadere il governo per scongiurare la sforbiciata di 345 seggi e tornare al voto anticipato. In questo caso si aprirebbe una finestra temporale (diciamo tra febbraio-marzo o tra aprile-maggio) per poter andare alle elezioni politiche senza la sforbiciata proprio perché, appunto, in attesa del referendum, il taglio dei parlamentari viene ‘sospeso’ in attesa che si tenga la consultazione: una forte tentazione per quei partiti che, sondaggi alla mano, con la riduzione dei parlamentari vedrebbero la propria pattuglia di onorevoli ridotta all’osso (Renzi), oltre che, ovviamente, per chi avrebbe convenienza di andare a elezioni politiche anticipate (Salvini e la Lega). Da notare che, essendo il referendum confermativo, non ‘slitta’ in caso di elezioni politiche anticipare, ma si tiene comunque nella data prevista, cioè fissata dal governo.
15 gennaio, la Consulta decide sul referendum elettorale della Lega
È attesa per metà gennaio (giorno più, giorno meno) la pronuncia della Corte costituzionale sul referendum proposto da sette consigli regionali in mano al centrodestra che punta a cancellare la quota proporzionale del Rosatellum, lasciando solo collegi uninominali maggioritari dove vale la logica inglese del “primo prende tutto”. Il sì al referendum complicherebbe la vita della maggioranza di governo che sta ragionando sulla riforma della legge elettorale ma con due sistemi elettorali di riferimento proporzionali: lo spagnolo (sbarramenti circoscrizionali) e quello tedesco (con un unico sbarramento nazionale al 5%), sistemi che però sono entrambi basati sul proporzionale. Una proposta formale della maggioranza di governo dovrebbe essere pronta per metà gennaio, ma se la Consulta dicesse sì al referendum leghista (che va verso un sistema fortemente maggioritario) come potrebbe il Parlamento varare una riforma profondamente proporzionale? Da notare che, essendo il referendum abrogativo e non consultivo, in caso di elezioni politiche anticipate, il referendum elettorale slitterebbe di almeno un anno. Chi vuole votare con il Rosatellum, che ha uno sbarramento basso (3%) avrebbe dunque convenienza a votare subito, facendo slittare il referendum elettorale della Lega.
20 gennaio, si vota al Senato sull’autorizzazione a procedere contro Salvini
È il giorno del voto, nella Giunta per le immunità in Senato, sul caso Gregoretti: si tratta della richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini, avanzata dal Tribunale dei ministri di Catania, con l'accusa di sequestro di persona per il divieto di sbarco dei migranti a bordo di una nave militare italiana quando questi era ministro dell’Interno. Il verdetto definitivo dell'aula è previsto a febbraio, quando potrebbero esserci sorprese con il voto segreto, ma già il 20 gennaio la maggioranza potrebbe subire delle fibrillazioni perché mentre i 5Stelle - a differenza del caso Diciotti - sono pronti a dire sì alla richiesta del Tribunale dei ministri, i renziani prendono tempo e fanno sapere che devono prima studiare le carte. In realtà, almeno sulla carta, sia in Giunta che in Aula, il verdetto sembra già scritta: per dire ‘no’ all’autorizzazione a procedere serve la maggioranza assoluta degli aventi diritto (cioè 161 voti), quorum che il centrodestra non ha, anche sommando i voti di Iv. Quindi, quando si arriverà al voto (è possibile uno slittamento del voto sia in Giunta che in Aula), Salvini dovrebbe andare a processo. A meno che, ovviamente, non vengano sciolte le Camere. Il voto, in quel caso, salterebbe e se ne riparlerebbe la legislatura seguente.
15-20 gennaio, verifica di maggioranza tra molte incognite
Dovrebbe tenersi a metà gennaio (ma, in questo caso, non vi è alcuna certezza sulla data) il vertice di maggioranza che dovrebbe dare luogo alla sua ripartenza. Una vera e propria verifica tra gli alleati di governo (Pd, M5S, Iv, Leu) dagli esiti, ad oggi, imprevedibili. I temi che si affastellano sul tavolo sono tanti, forse troppi. Si va dalla giustizia (come abbiamo visto) e, in particolare, dalla prescrizione, ai decreti sicurezza voluti, all’epoca, da Salvini, da rivedere (il Pd vuole cancellarli, specie il secondo, l’M5S li difende), dalla possibile revoca delle concessioni autostradali, dopo il crollo del ponte di Genova, con nel mirino Autostrade per l’Italia (l’M5S e anche il Pd vogliono rivedere l’intero sistema, Iv si oppone) alla soluzione, ad oggi ancora non trovata, ma che prevede il forte ingresso, almeno ‘a tempo’, di capitali dello Stato, per risolvere la crisi Ilva di Taranto, quella di Alitalia (commissariata) come la Popolare di Bari. Dal vertice di maggioranza e dal suo ‘cronoprogramma’ si capirà se il governo avrà le gambe per una vera ripartenza oppure se il banco salterà e si precipiterà verso la crisi.
26 gennaio, si vota in Emilia-Romagna e Calabria
È il giorno che potrebbe segnare il destino della legislatura. Salvini punta al bottino pieno - vittoria sia in Calabria che in Emilia-Romagna, dove si vota per le elezioni regionali - ma è solo la seconda la partita politicamente decisiva. Una sconfitta del governatore uscente dem, Stefano Bonaccini, potrebbe mettere a rischio sia la segreteria di Zingaretti nel Pd che la tenuta del governo, specie se risultassero determinanti i voti dei 5Stelle che, in entrambe le regioni, hanno rifiutato un'alleanza con il Pd, dopo il fallimento del fronte comune sperimentato in Umbria. Se invece la sfida della destra, affidata alla leghista Lucia Borgonzoni, non dovesse avere successo, il governo giallo-rosso potrebbe pensare a una nuova agenda e guardare avanti con speranza. Ma paradossalmente anche la vittoria del Pd in Emilia potrebbe non bastare ad assicurare la tenuta del governo. Infatti, o si troverà una nuova ‘linea di condotta’ tra i partner della maggioranza oppure, se si dovesse andare avanti a polemiche alimentate sui giornali (come, in questi giorni, gli attacchi di Bellanova e Boschi di Iv su quota 100 e reddito di cittadinanza e le risposte piccate dei 5Stelle), è chiaro che il quadro della maggioranza non terrebbe più. A prescindere dai ‘vertici’ e dai temi che dovrebbe affrontare.