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Conte, Di Maio e Salvini ovvero il ritorno della voglia di Gialloverde

Questa corrispondenza di amorosi sensi trova anche l’altra faccia della medaglia nelle alleanze che in molti nei rispettivi partiti sentono come una camicia di forza

Massimiliano Lussanadi Massimiliano Lussana   
Conte, Salvini e Di Maio ai tempi del governo gialloverde (Ansa)
Conte, Salvini e Di Maio ai tempi del governo gialloverde (Ansa)

E’ un desiderio carsico, sotterraneo, ma che attraversa trasversalmente i gruppi di Lega e MoVimento Cinque Stelle e, soprattutto, gli scissionisti ex pentastellati, passati, presenti e, chissà, anche futuri. Funziona così: molti parlamentari del MoVimento e del Carroccio sentono una forte nostalgia del governo gialloverde, il Conte uno, e del patto programmatico che portò a quell’esecutivo: “Con loro avevamo fatto la Spazzacorrotti e il reddito di cittadinanza” sospirano i grillini, “Insieme al MoVimento avevamo fatto passare Quota 100 ed eravamo durissimi sugli sbarchi con i porti chiusi” rispondono i secondi.

E questa corrispondenza di amorosi sensi trova anche l’altra faccia della medaglia nelle alleanze che in molti nei rispettivi partiti sentono come una camicia di forza: per i pentastellati il Pd che per alcuni di loro è tornato ad essere “il male assoluto” o “il partito di Bibbiano” e per la Lega la parte moderata del centrodestra. Insomma, questi hanno voglia di sovranismo, come ai bei – per loro, of course – tempi del governo gialloverde.

Certo, non tutti stanno in questo quadro, a partire da Luigi Di Maio e Giancarlo Giorgetti, entrambi legatissimi a Mario Draghi, che non rimpiangono certo quell’esperienza, di cui pure erano protagonisti assoluti: il primo come ministro dello Sviluppo Economico, del Welfare e del Lavoro, il secondo come sottosegretario alla presidenza del Consiglio, sia pure progressivamente sempre più insofferente nei confronti di quell’esecutivo. 

Segnali di nostalgia

Ma sono sempre più i segnali di “nostalgia canaglia” nei confronti dell’esperienza gialloverde, con cui si iniziò la legislatura e poi bruscamente interrotta con la crisi del Papeete di Ferragosto 2019 che si lasciò alle spalle strascichi anche pesanti fra leghisti e pentastellati e fra Conte e Salvini. Paradossalmente, il fatto che entrambi siano parte del governo Draghi, ma entrambi in modo non entusiasta (ovviamente ci riferiamo in particolare ai salviniani doc ed ai contiani) aiuta moltissimo, anche per l’insofferenza di entrambi i leader nei confronti del presidente del Consiglio e soprattutto del suo potere.

Le prove generali si sono avute con l’elezione del presidente della Repubblica, con i continui contatti fra Salvini e Conte, che portò di volta in volta ai rumors su Franco Frattini, Elisabetta Belloni, Giampiero Massolo e almeno altri cinque nomi balzati fuori dal cilindro, compresa addirittura Maria Elisabetta Alberti Casellati, su cui Conte ufficialmente mise un veto, ma secondo alcuni era in realtà possibilista. 

Insomma, già lì si era visto che Matteo e Giuseppe erano tornati fidanzatini politici. Poi è stato il turno ovviamente della crisi fra Russia e Ucraina, dove entrambi preferiscono, più o meno apertamente, Putin, e infine è arrivato il voto a tutela delle garanzie costituzionali per Matteo Renzi che ha visto sì Lega e MoVimento Cinque Stelle votare in modo diametralmente opposto, ma il punto politico è che i pentastellati hanno votato diversamente dal Pd e con toni fortissimi, dall’ex ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture (non a caso proprio nel governo gialloverde) Danilo Toninelli che definisce “abominevole” la posizione del Pd nel voto su Renzi, allo stesso Conte, con toni ovviamente molto più felpati dell’arrembante Toninelli: “Il campo largo di Letta? Se è annacquato non ci entro”.

Aspetti culinari

Parole che, per la moderazione dialettica di Conte sono TNT e che nascono proprio dal voto del Pd a favore della scelta del Senato di sollevare il conflitto di attribuzione su Renzi e le illegittime intercettazioni. E poi ci sono anche gli aspetti culinari di colore, come la cena a cui hanno partecipato lo stesso Conte e Alessandro Di Battista – il più contrario di tutti all’alleanza organica con il Pd – dopo uno spettacolo. Incontro conviviale molto piacevole a detta di tutti. E chissà se foriero di altro.

In tutto questo, un ruolo decisivo ce l’hanno i fuorusciti grillini, che avevano votato tutti  entusiasti per il governo gialloverde, che in molti casi non hanno approvato quello giallorosso e che in moltissimi hanno abbandonato la compagnia il giorno della nascita del governo Draghi in nome del “Conte o morte”.

E se Conte dovesse farsi un suo movimento – come suggeriscono i manifesti 6x3 affissi per le strade italiane – o se dovesse prendere in mano il MoVimento per farlo più rivoluzionario, populista o sovranista, con la scissione dei dimaiani, che sono moltissimi nei gruppi parlamentari, ecco che allora anche alcuni che se ne sono andati potrebbero tornare, purchè il progetto sia contro Draghi, Di Maio e il Pd. E magari con la Lega.

Penso, ad esempio, a quelli di Alternativa che tutti i giorni cannoneggiano il governo ancor più di Fratelli d’Italia e che hanno come obiettivo massimo il ministro per i Rapporti con il Parlamento, loro ex compagno di partito, ma oggi troppo draghiano per i loro gusti, Federico D’Incà. Ieri, quando ha chiesto per l’ennesima volta la fiducia sulla conversione di un decreto Covid, oltre ad esporre cartelli con scritte contro Draghi, hanno urlato al povero D’Incà, persona mite e perbene, “Fai schifo!” e “Stai zitto!”.

E poi c’è Raffaele Trano, ex presidente della commissione Finanze di Montecitorio, che oggi è in Alternativa e cannoneggia i suoi successori, così come Francesco Forciniti e Pino Cabras e tutti gli altri di Alternativa, ma anche ex pentastellati sparsi nel gruppo Misto senza aderire ad alcuna componente. Il leader, seppur senza bollini, di Alternativa a Palazzo Madama è invece Mattia Crucioli, anche lui senatore ex pentastellato che sarà candidato sindaco di Genova “anti-Draghi” appoggiato da quattro sigle e mira a pescare nel mondo No Vax e No Pass.

La galassia di sigle

Fra queste sigle c’è anche Italexit di Gianluigi Paragone che, da ex direttore della Padania, è l’incarnazione vivente dell’essere gialloverde. E proprio Italexit dopo tre ex pentastellati, lo stesso Paragone, il siciliano Mario Michele Giarrusso e il piemontese Carlo Martelli espulso ancor prima di cominciare la legislatura, ha conquistato il quarto parlamentare, stavolta un ex leghista eletto nel Lazio (e sempre lì andiamo a parare, al mondo gialloverde), perché questo ha aderito spiegando di “credere nel sovranismo”.

L’annuncio ufficiale è arrivato con l’ormai ex consueto titolino sugli atti ufficiali: “Gruppi parlamentari, variazioni nella composizione”. Testo: ”Il senatore William De Vecchis, con lettera del 17 febbraio 2022, ha comunicato di cessare di far parte del Gruppo parlamentare Lega-Salvini Premier-Partito Sardo d'Azione e di aderire al Gruppo Misto. La Presidente del Gruppo Misto ha comunicato che il senatore DeVecchis ha aderito, all'interno del Gruppo stesso, alla componente "Italexit per l'Italia-Partito Valore Umano".

Insomma, fra molti leghisti (quelli dell’area Borghi-Bagnai, soprattutto) e soprattutto in un certo mondo pentastellato ed ex c’è voglia di gialloverde.

Ma è già pronta anche la contraerea, come ha testimoniato l’intervento di Gaetano Quagliariello l’altro giorno che - in attesa delle carte bollate ufficiali e dell’ufficializzazione del nome del nuovo partito di Giovanni Toti, di Clemente Mastella, di Quagliariello stesso e presto di Matteo Renzi anche sugli atti parlamentari – ha battezzato “Italia al Centro”: “Signor Presidente, colleghi senatori, intervengo a nome della componente Italia al Centro del Gruppo Misto”. Per i prossimi mesi della politica italiana, scorta di pop corn.

Massimiliano Lussanadi Massimiliano Lussana   
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