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[L’analisi] Vi spiego come il governo Salvini - Di Maio ha salvato la manovra dalla punizione di Bruxelles. E tutti i pericoli

La proposta, che pare contenuta nella nuova manovra, di limitare quota 100 ai prossimi 3 anni, quelli necessari a smaltire gli esodati della legge Fornero, (dopo la regola sarebbe quella dei 41 anni di contributi) ridurrebbe l’impatto sulla spesa pensionistica a lungo termine, ma non quella sul futuro immediato. Tanto che, secondo indiscrezioni, il governo avrebbe riesumato l’Iva. Una clausola di salvaguardia per cui per tamponare le nuove spese, l’anno prossimo scatterebbe non solo l’aumento Iva già previsto (equivalente a 12 miliardi) ma un secondo aumento, pari a 7 miliardi di euro. Ovvero, per evitare il rialzo dell’Iva, come i vari governi hanno fatto sistematicamente ogni anno, si sa già che bisognerà trovare, comunque, non dodici, ma venti miliardi di euro di entrate alternative. Una autentica bomba ad orologeria

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci, editorialista   
[L’analisi] Vi spiego come il governo Salvini - Di Maio ha salvato la manovra dalla punizione di...

Settanta giorni di corsa pazza,  che sono costati alle casse dello Stato circa un miliardo di euro, più di sei volte quello che Di Maio e soci incasseranno dallo strombazzato assalto alle pensioni d’oro. Ieri, infatti, sui mercati finanziari lo spread è tornato a veleggiare intorno a quota 260, quella a cui si trovava nell’ultima settimana di settembre, quando il governo, insieme alla Manovra del Popolo, annunciava la sfida all’Europa e il deficit pubblico al 2,4 per cento del Pil. In questi due mesi e mezzo, con lo spread a quota 300 e passa, il Tesoro si è via via impegnato, nelle aste delle emissioni di nuovi titoli, a promettere agli investitori interessi più ricchi: il conto totale, rispetto a quanto avrebbe pagato se lo spread fosse rimasto al livello di settembre, è appena inferiore al miliardo di euro. Ma la minaccia era che, se fosse rimasto a 300 anche lungo il 2019, il conto si sarebbe allargato a sei miliardi di euro.

Sono i numeroni, quelli pesanti, contrapposti ai “numerini” su deficit e debito su cui hanno ripetutamente ironizzato Di Maio e Salvini. Sono questi che hanno probabilmente indotto il governo ad un marcia indietro nel confronto con l’Europa e alla limatura dei nuovi numeri della manovra 2019. La veloce discesa dello spread è la conferma che, anziché una faziosa campagna di propaganda, gli allarmi ripetutamente lanciati sulla tenuta della finanza pubblica erano fondati: a determinare la crisi di sfiducia dei mercati verso i titoli italiani era, assai più dei dati fondamentali dell’economia, l’atteggiamento scelto dal governo nel confronto con l’Europa. Cambiata la musica, è cambiato, almeno per il momento, anche l’atteggiamento dei mercati.

MA NON E’ FINITA QUI. E’ presto, però, per voltare pagina. Della svolta determinata dalla nuova proposta di bilancio italiana è chiara la logica politica, assai meno quella economica. A Roma interessava stemperare il clima e rasserenare i mercati. A Bruxelles, evitare di correre a perdifiato verso un duello finale con il governo italiano, a ridosso delle elezioni europee di maggio. Fare nuove proposte, da una parte, assicurare che verranno esaminate e studiate, dall’altra, il tutto in un clima di collaborazione, serve a tutti per prendere tempo. La sostanza economica sottostante, invece, è molto meno solida. In fondo, tutto ruota, ancora una volta, intorno a due numeri. Il nuovo obiettivo di un deficit al 2,04 per cento (l’impressione è che quei quattro centesimi di punto siano lì per assicurare un’assonanza con il vecchio totem del 2,4 per cento). E quello del deficit al 3,4 per cento a cui si sarebbe ridotta la Francia. Sono due numeri mediaticamente d’effetto. Ma sono ambedue fasulli. Cominciamo da quello francese.

L’EQUIVOCO MACRON. L’idea che l’arrogante Macron, di fronte alla rivolta di piazza, abbia sbracato, rompendo, con le sue promesse di tagli e regalie per 10 miliardi di euro, anche il tetto del 3 per cento e, dunque, quello che Bruxelles consentirà alla Francia deve essere consentito anche all’Italia è l’equivalente, sul piano della propaganda, di un poker d’assi. Ottenuto, però, barando.  Le prove sono numerose. L’economia francese è più solida, la manovra Macron contiene più riforme strutturali, il debito pubblico è sotto il 100 per cento del Pil, lo spread con il Bund tedesco minimo, la fiducia dei risparmiatori intatta. Inoltre, proceduralmente, Parigi rischia il cartellino giallo di Bruxelles per eccesso di deficit, un peccato meno grave della mancata diminuzione del debito, che è la colpa rimproverata all’Italia (il cui debito sta oltre il 130 per cento). Ma a tagliare la testa al toro basta un conto più semplice. Il deficit annunciato da Parigi per il 2019 era del 2,8 per cento, che ora, con i 10 miliardi di euro promessi da Macron, salirebbe di 0,6 punti, al 3,4 per cento. Ma quel 2,8 per cento iniziale era un illusione contabile. L’anno prossimo, nel calcolo di una imposta a carico delle aziende, la Francia passa da un sistema di acconto al pagamento a saldo (che, a questo punto, avviene nel 2020). Vengono provvisoriamente a mancare una quindicina di miliardi, che però verranno recuperati, in via permanente, l’anno successivo. Questa posta vale circa l’1 per cento del Pil. Quindi il deficit effettivo francese 2019 è l’1,9 per cento del Pil. Con lo 0,6 che risulta dalle promesse di Macronsi arriva al 2,5 per cento. Tanto, forse, ma meno di quello che la Francia registrerà nel 2018 e lontano dal famigerato 3 per cento.

IL FANTASMA DEL 2 PER CENTO. Intanto l’Italia promette di far scendere il deficit previsto per il 2019 fino al limite del 2 per cento. La Commissione insisterà perché si scenda ancora e, soprattutto, andrà a vedere cosa accadrebbe al deficit strutturale (quello al netto del normale fluttuare dell’economia) che la manovra di settembre aumentava in misura consistente e Bruxelles vorrebbe invece veder diminuire.

Ma più importante (anche per la Commissione se, oltre a guadagnare tempo, vuole fare seriamente il suo lavoro) è stabilire come si arriva a questo risparmio di 7 miliardi di euro circa, corrispondente allo 0,4 per cento in meno, proposto dal governo gialloverde. Non è certo la prima volta che il governo di Roma gioca con anticipi di incassi, posticipi di spese, risorse improbabili. Lo ha fatto sistematicamente ogni anno, per rientrare nei parametri posti dalla Ue. Questa volta, però, l’operazione studiata dal ministro del Tesoro, Tria, è a 360 gradi e richiede più di un atto di fede.

Il primo passaggio è il più indolore politicamente, ma economicamente il più rischioso. Le due misure simbolo della Manovra del Popolo – quota 100 sulle pensioni e reddito di cittadinanza – non potranno tecnicamente entrare in vigore prima di metà anno, grosso modo, e verranno temperate con una serie di slittamenti di scadenze (come le finestre di accesso alla pensione). Di fatto, sei mesi in meno di pagamenti di sussidi e pensioni consentono già di risparmiare 4miliardi di euro circa. Caricandoli, però, sugli anni successivi. Il 2020 diventa dunque un anno-monstre con una fiumana di nuovi pensionati e di nuovi sussidiati a zavorrare il bilancio. La proposta, che pare contenuta nella nuova manovra, di limitare quota 100 ai prossimi 3 anni, quelli necessari a smaltire gli esodati della legge Fornero, (dopo la regola sarebbe quella dei 41 anni di contributi) ridurrebbe l’impatto sulla spesa pensionistica a lungo termine, ma non quella sul futuro immediato. Tanto che, secondo indiscrezioni, il governo avrebbe riesumato l’Iva. Una clausola di salvaguardia per cui per tamponare le nuove spese, l’anno prossimo scatterebbe non solo l’aumento Iva già previsto (equivalente a 12 miliardi) ma un secondo aumento, pari a 7 miliardi di euro. Ovvero, per evitare il rialzo dell’Iva, come i vari governi hanno fatto sistematicamente ogni anno, si sa già che bisognerà trovare, comunque, non dodici, ma venti miliardi di euro di entrate alternative. Una autentica bomba ad orologeria, che scardinerebbe qualsiasi governo.Auguri.

L’OMBRA SULLA CASSA DEPOSITI E PRESTITI. L’altro braccio della nuova manovra ipotizzato nelle indiscrezioni non è molto più rassicurante. Torniamo alla vendita del patrimonio immobiliare pubblico, un altro tema ricorrente nella hit parade della finanza pubblica. Si era parlato, però, questa volta, di una cifra molto alta, da portare a riduzione del debito, circa 18 miliardi di euro. La novità è che il governo avrebbe trovato un acquirente consenziente, perché non può dire di no: la Cassa Depositi e Prestiti che il governo gialloverde considera un po’ il proprio salvadanaio. Invece è la cassaforte in cui confluiscono 300 miliardi di euro di libretti postali, normalmente lo strumento preferito dai risparmiatori meno sofisticati. L’idea di caricare sui risparmi della povera gente, custoditi dalla Cdp, l’onere di immobili e beni di dubbia commerciabilità e, certamente, non rapidi da vendere è, quanto meno, molto scivolosa. 

Di fatto, tutti i capitoli della Nuova Manovra, per quel che ne sappiamo, appaiono discutibili e di difficile applicazione. Resta, poi, la fragilità di fondo di una strategia fondata – fra pensioni e sussidi – sull’aumento della spesa corrente, con scarsa incidenza sul sistema produttivo, per colpa sia della labilità degli impegni a maggiori investimenti, sia del mancato intervento sul costo del lavoro, con l’abbattimento del cuneo fiscale, ovvero la distanza fra stipendi lordi e netti di tasse. Visto che l’Italia sta per entrare, nei prossimi mesi, in una minirecessione, non la ricetta più efficace.

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci, editorialista   
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