[Il retroscena] Da Montezemolo a Tronchetti Provera e Farinetti. Da Caio a Bassanini. Chi sale e chi scende dal carro dei vincitori
Si è creata una spaccatura quasi innaturale fra quelli che si precipitano a salire sul carro della Lega e dei Cinque Stelle e quelli che resistono, due caste contrapposte. Al di là delle varie dichiarazioni d’affetto, è l’atmosfera salottiera ciò che colpisce di più, questo clima diffuso di approcci e sorrisi in nome delle poltrone

Nel Paese del Gattopardo, sono i governi che cambiano, non i grand commis, che restano fermi nei loro posti di potere, come se niente potesse scalfirli. L’abbiamo sempre detto e l’abbiamo sempre visto, nelle successioni dei partiti e delle Repubbliche. Eppure questa volta c’è qualcosa di diverso, perché i nuovi leader della politica e gli alti funzionari dello Stato sembra quasi che debbano ancora conoscersi, annusarsi, misurarsi e servirsi anche, gli uni e gli altri. E’ per questo che si è creata questa spaccatura quasi innaturale fra quelli che si precipitano a salire sul carro dei vincitori e quelli che resistono, due caste di Grandi Ufficiali contrapposte, di imprenditori e boiardi schierati per la prima volta su fronti lontani del potere.
E’ così anomala questa congiuntura che il primo a prendere posizione contro questo governo è stato proprio Luca Cordero di Montezemolo, uno che è sempre riuscito a stare in mezzo al guado, sempre invocato da tutt’e due le sponde e che adesso invece ha subito esternato tutto il suo stupore «nel vedere come esponenti importanti della cosiddetta classe dirigente salgano sul carro del vincitore prima ancora che questo abbia cominciato a muoversi». Non ha fatto nomi, ma non ce n’era bisogno. Ci sono un mucchio di persone importanti in quell’elenco. Da Tronchetti Provera, ad della Pirelli, trent’anni sugli scudi, grandi successi e improvvisi ribaltoni, e una rete di alleanze che ne ha perpetuato il potere: «Ho visto governi di facciate molto stabili che agivano in maniera irresponsabile. Aspettiamo di vedere i programmi, prima di criticare questo». A Oscar Farinetti, di Eataly, soprattutto, renziano di ferro fino all’altro ieri, improvvisamente folgorato sulla via di Damasco: «Non sono voltagabbana ma tifoso dell’Italia. Mi dispiace per Matteo Renzi, ma è solo politica. Se ha perso significa che ha fatto tanti errori. Ora tifo questo governo perché c’è e deve rilanciare il Sud e creare lavoro. Io non sono mai stato un tifoso di partito, non ho mai avuto una tessera, ma sono un tifoso dell’Italia. Mi sono stufato di criticare. E’ il momento di cercare il bello».
Certo, non tutti si sono spinti fino all’endorsement di Farinetti, anche se qualcuno ci ha provato con tutta la buona volontà. Per pentirsi subito dopo, però. Come Vincenzo Boccia, il presidente di Confindustria, che aveva cominciato con ottime intenzioni: «Il Movimento Cinque Stelle? Un partito democratico, non fa certo paura». Poi ha visto il decreto Dignità ed è sembrato un po’ meno convinto: ha criticato il ritorno delle causali e ha detto che «non si possono cambiare le regole in corsa». Quindi ha mandato avanti il direttore generale Marcella Panucci, che non aveva mai pensato di salire sul carro dei vincitori e perciò è andata giù più velenosa, sostenendo che il decreto «rende più incerto e imprevedibile il quadro delle regole, disincentivando gli investimenti e limitando la crescita», e prevedendo, come se non bastasse, «potenziali effetti negativi sull’occupazione oltre quelli stimati». Di Maio le ha risposto dicendo che lei stava facendo del terrorismo. Molto diverso il rapporto con Enrico Bracalente, al timone di NeroGiardini, che l’endorsement per i Cinque Stelle l’aveva fatto prima del voto. Lui viene dall’area di centrodestra, Forza Italia e vecchia Lega Nord, amico di Bossi e Dell’Utri. Adesso invece amicissimo dei grillini: «Io sono molto deluso dalla vecchia politica. In passato sono stato dietro a qualche onorevole imprenditore, ma sono molto deluso e non voglio più accettare questa classe politica superata. Loro invece amministrano bene a Roma, nonostante tutto quello che si dice. Hanno cambiato molte cose».
Al di là delle varie dichiarazioni d’affetto, è l’atmosfera salottiera ciò che colpisce di più, questo clima diffuso di approcci e sorrisi in nome delle poltrone. La Stampa e il Corriere hanno già raccontato gli incontri e i saluti, gli inviti e le feste, nei santuari del potere affacciati sul Cupolone come monumenti di un ritratto che Tomasi di Lampedusa ha consegnato alla storia perché tutto cambi senza cambiare. Nel suo elenco, il quotidiano milanese riporta nomi persino difficili da comprendere, dall’antico democristiano Scotti a Caio, Catania, Bassanini, grandi boiardi di Stato ormai bruciati da vecchie polemiche che però tenterebbero lo stesso di riciclarsi. Francesco Caio lasciò lo scranno alle Poste con una mega buona uscita dopo che la Corte dei Conti durante la sua dirigenza aveva proprio chiesto di «porre attenzione all’incremento del costo del personale dirigente», senza venire troppo ascoltati. Elio Catania invece fu accusato dai sindacati di aver provocato «enormi danni» nel periodo della sua gestione alle Ferrovie, «che anziché puntare al risanamento e al contenimento degli sprechi, ha fatto letteralmente esplodere i costi operativi con una proliferazione dell’apparato dirigente». E Franco Bassanini dalla Cassa Depositi Prestiti era passato all’incarico di Special Advisordi Renzi prima e Gentiloni poi. Lui dovrebbe essere uno con la casacca firmata e gli altri due nemici dichiarati del rigore grillino. Ma nel Paese del Gattopardo chissà quanto contano queste cose. Di fatto, da una ricerca del centro studi FB & Associati commissionata dal Foglio risulterebbe che il M5S nel 60 per cento dei casi si sarebbe affidato nelle nomine all’interno dei ministeri, - capi di gabinetto e capi di legislativo -, a dirigenti che avevano già lavorato alle dipendenze di precedenti governi, mentre questa percentuale con la Lega scenderebbe al 50. Naturalmente ci sarebbero delle preferenze: recuperati berlusconiani e anche prodiani, bocciati quelli delle ultime due maggioranze. In sintesi, però, significa che per molti c’è ancora una possibilità anche nel governo del cambiamento.
Eppure, questa volta non c’è solo l’elenco di quelli che salgono sul carro. Perché ce n’è un altro altrettanto lungo di quelli che lo rifiutano. Non c’è solo Tito Boeri, presidente dell’Inps, che ormai è in polemica perenne con i padroni del governo, un giorno sì e l’altro pure sulle prime pagine dei giornali. Il ministro dell’Economia Giovanni Tria lo ha già sacrificato - e si vede, l’ultima uscita del presidente Inps, su Di Maio fuori dalla realtà, è francamente esagerata per un uomo delle istituzioni - per salvare il ragioniere dello Stato Daniele Franco, persona molto preparata e della Banca d’Italia, che è soggetta a spoils sistem e quindi può essere rimossa. Solo che proprio Franco sarebbe uno dei maggiori indiziati dopo il caso della «manina» che sarebbe intervenuta sulla relazione tecnica del Dl Dingità, quando il M5S ha minacciato di «fare pulizia» al Mef e alla Ragioneria dello Stato per togliere «le vipere» che mirano «a ledere l’operato del governo». Nonostante questa durezza, molti continuano a dire no. Fra loro c’è addirittura Carlo Sangalli, presidente di Confcommercio, cioé di una categoria che ha in questo governo il suo sindacato, che però si è dissociato pesantemente da Luigi Di Maio che ha proposto di chiudere i negozi durante le festività, facendo presente che quel provvedimento metteva a rischio 400mila posti di lavoro rischiando di bruciare un fatturato pari a 20 miliardi di euro. Non è salito sul carro Paolo Uggé, presidente della federazione degli autotrasportatori italiani, che ha attaccato il governo perché scherzare sul Brennero e le frontiere significa mettere a rischio un export di 17 miliardi. E neppure Massimiliano Giansanti, presidente di Confagricoltura, secondo cui andare contro il Ceta (l’accordo commerciale Ue-Canada) significa andare contro l’interesse nazionale. C’è chi dice no. Sono le due facce della casta. Però fa un po’ effetto. Perché in questo momento l’unica vera opposizione al governo sembra per assurdo quella dei tecnici e dei boiardi di Stato, che erano abituati da sempre a dire sì a tutti. Strani tempi. L’opposizione politica non esiste. E quando esiste è francamente peggio.