[Il retroscena] Berlusconi vuole un governo con il Pd, ma Salvini lo stronca: il centrodestra sull'orlo di una crisi di nervi
Il presidente di Fi lancia un appello al Pd perché "sia responsabile", ma il segretario della Lega si infuria: "Non mi hanno votato per riportare Renzi e Boschi al governo. Niente minestroni o si rivota". Il leghista tira dritto ed è convinto che col tempo arriveranno nuovi parlamentari pronti a sostenere il suo tentativo: "Aspettiamo che si facciano i gruppi e tutti si abituino alle comodità, poi verranno...". Sulle presidenze di Camera e Senato continuano le trattative, ma Di Maio avvisa: "Vedo giochi di potere sulla pelle dei cittadini"
Che la situazione stesse per sfuggire di mano al patron di Arcore si era capito domenica sera quando alle 21 e 30, coi giornali già quasi in stampa e i tg della sera andati, Forza Italia ha diramato una nota destinata a rimanere di semplice rappresentanza, a futura memoria: “La scelta dei Presidenti delle due Camere è il primo snodo politico importante di questa legislatura, per risolverlo non basta la logica dei numeri, occorre che tutto il centro-destra faccia una riflessione comune per giungere ad una proposta unitaria”. Silvio Berlusconi stava insomma provando a frenare l’alleato Matteo Salvini che, invece, ha aperto (via Giancarlo Giorgetti) un canale col Movimento 5 stelle ed è convinto che alla Camera e al Senato ci debbano andare un pentastellato e un leghista.
I forzisti non hanno i numeri per fermare quell’accordo, ma hanno lanciato un appello alla ragionevolezza. Nell’inner circle dell’ex premier stanno infatti soffrendo il protagonismo del segretario del Carroccio e temono che abbia deciso di fare di testa sua, promuovendo l’avvio della legislatura in tandem con il Movimento 5 stelle, offrendo come contropartita il ritorno alle urne per l’anno prossimo, in concomitanza con le Europee.
L’operazione trasformerebbe i prossimi mesi in una lunga campagna elettorale in vista dello “spareggio” nelle urne che avrebbe come effetto la scomparsa dei comprimari, cioè Pd e Fi. Ecco perché sia i dem che i forzisti devono trovare il modo di scongiurare questo sbocco e, se possibile, mettersi di traverso. Il presidente di Fi sì è speso in prima persona con una intervista a La Stampa con la quale si impegnava a raccogliere l’appello del Capo dello Stato alla “responsabilità e condivisione”, a mettere da parte “gli egoismi” e lanciava il suo invito al Pd perché “faccia la sua parte” per assicurare un governo al Paese. Lo schema che ha in mente l’ex premier è quello di coinvolgere il partito che da oggi è guidato da Maurizio Martina in un governo di centrodestra direttamente o attraverso formule più blande come l’astensione sistematica, un meccanismo già sperimentato in Spagna. Lo ha citato chiaramente il presidente (uscente) dei deputati azzurri, Renato Brunetta.
La bocciatura di questa ipotesi, con relativa sconfessione delle parole del presidente forzista, è arrivata però prima dal segretario della Lega che dai dem, che erano in altre faccende affaccendati. “Gli italiani non ci hanno votato per riportare Matteo Renzi al governo, o Maria Elena Boschi e Graziano Delrio e neanche Paolo Gentiloni”, ha chiarito Salvini, che ha riunito il consiglio federale del suo partito. Il candidato del centrodestra ha stroncato così anche quella che per molti osservatori poteva essere l’extrema ratio in caso di stallo prolungato, cioè la permanenza del premier uscente fino a nuove elezioni. Il segretario della Lega ribalta la prospettiva: “Non andremo mai al governo se non potremo realizzare quello che ci siamo proposti di fare: via la legge Fornero, riduzione delle tasse, blocco dell'immigrazione clandestina, revisione dei trattati europei”, ha aggiunto. Nessuno di questi punti è particolarmente indigesto al M5s, mentre lo sono al Pd.
Il leader della Lega è convinto che, avendoci un po’ di pazienza, i numeri spunteranno fuori: “Aspettiamo che si formino i gruppi parlamentari, aspettiamo di vedere cosa succede con gli espulsi dei Cinquestelle e con i centristi eletti nel centrosinistra, che i neoeletti si “abituino” alle comodità del Parlamento e vediamo poi se vorranno tornare a casa…”, ha spiegato ai suoi nei colloqui riservati. Buona parte degli eletti pentastellati, oltretutto, potrebbero essere impediti a ricandidarsi in caso di elezioni anticipate per la regola del doppio mandato.
Salvini pensa di poter essere lui ad attrarre i voti che mancano e che, come calcola Maurizio Gasparri, sono tantini, cioè “20 al Senato e 50 alla Camera”. E’ lo stesso ex ministro di Alleanza nazionale a segnalare che, per esempio, c’è un eletto all’estero interessato a diventare un “responsabile”, ma è difficile immaginare che si spostino così tanti parlamentari in blocco e che lo facciano per giunta in due diverse Camere.
Il segretario della Lega sembra intenzionato a provarci, ma mette in chiaro che “la prima volta di un leghista a Palazzo Chigi non potrà essere per guidare un “pateracchio” o di un “minestrone”. Piuttosto che sprecare l’occasione, Salvini sembra deciso a disponibile a passare la mano a qualcun altro. A stoppare l’ipotesi che a fare il suo tentativo possa essere Giovanni Toti, forzista “ribelle” e amico personale del segretario della Lega, oggi governatore della Liguria, è ancora Gasparri: “Questa è un’ipotesi irrealistica: Toti farà il presidente della Regione Liguria e si ricandiderà a quel ruolo”. In pista tra i leghisti resterebbero i nomi di Giancarlo Giorgetti, di Roberto Maroni e forse pure quello di Luca Zaia. Un’ipotesi in casa azzurra potrebbe essere quella di Paolo Romani che potrebbe essere il predestinato a sedere sullo scranno più alto di Palazzo Madama qualora la Lega abbandonasse l’asse coi Cinquestelle. Ha soltanto un valore simbolico - ma poco pratico - la prossima iscrizione degli eletti di Noi con l’Italia, la sfortunata “quarta gamba” del centrodestra, che sono quattro alla Camera e quattro al Senato, ai gruppi di Forza Italia. Gli azzurri a Palazzo Madama arriverebbero così a quota 60 senatori, superando di due unità i leghisti.
La tensione dentro al centrodestra e le dimissioni del segretario con relative polemiche dentro al Pd danno gioco facile al candidato premier pentastellato. Di Maio, infatti, si vede meno ma resta in partita, anzi, potrebbe essere il primo indicato per un incarico esplorativo da premier: “Gli italiani si aspettano responsabilità da chi ha fatto questa legge elettorale, ma assistiamo ai soliti giochi di potere sulla pelle dei cittadini”, ha scritto su Twitter.