[L'Intervista] "Cambridge Analytica e gestione dei big data: il segreto di Pulcinella"
Parla Giulio Xhaet, divulgatore digitale, docente ed autore del libro: "Digital Skills". "La vecchia idea di privacy è morta. Indietro non si torna, ma possiamo attrezzarci con una nuova consapevolezza digitale"
Si allarga lo scandalo Cambridge Analytica. La versione fornita da Mark Zuckerberg sulla vicenda non convince del tutto e viene messa ora alla prova dalle rivelazioni del quotidiano The Guardian, secondo il quale non soltanto la società inglese avrebbe sottratto i dati personali di oltre 50 millioni di utenti su Facebook, ma il suo ricercatore Alexander Kogan, avrebbe anche ricevuto dalla stessa Facebook dati aggregati su ben 57 miliardi di combinazioni di "amicizie" intrecciate sulla piattaforma di Zuckerberg. Uno scandalo su cui ora dice di voler indagare anche il procuratore Mueller, già a lavoro sul fascicolo “Russiagate” negli Stati Uniti e che rischia di compromettere la leadership di mercato di Facebook a livello globale. In realtà, osservano diversi analisti, il problema della gestione dei big data e di chi ne detiene il controllo non nasce oggi, e per farsene un’idea basterebbe andarsi a rivedere il film “Snowden” del 2016. Ma la stessa vicenda della Cambridge Analytica era conosciuta alle cronache già due anni fa, in piena campagna presidenziale USA: dunque perché tanto stupore?
Ne abbiamo parlato con Giulio Xhaet, Digital Strategist Newton Spa e docente della Business School del Sole 24 Ore, autore di diversi saggi sulle nuove professioni digitali e coautore del libro “Digital Skills” insieme a Francesco Derchi appena uscito per Hoepli. “Sono stupito e anche interdetto”, dice. “Tutti ora parlano del caso Facebook, di Cambridge Analytica e dei dati “trafugati” degli utenti come se si fosse scoperto ieri. In realtà era ed è un gran segreto di Pulcinella”
Perché le attività di Cambridge Analytica, erano il segreto di Pulcinella?
“Perché se ne parla ampiamente già dal 2016, se ne è parlato in tanti luoghi on line e off line, e in particolare c’è stata un’inchiesta del 2016 che è stata riportata in maniera molto dettagliata qui in Italia dalla rivista Internazionale con un articolo che si intitolava “La politica ai tempi di FB” e dal quale ho estratto molti spunti che ho riportato nel mio libro in un capitolo sui dati digitali, argomentando proprio che la cosa che mi stupiva di più fosse come Obama venisse citato in quanto perfetto “case study” sull’utilizzo dei social, ma come un caso altrettanto eclatante, come l’elezione di Donald Trump non venisse così condiviso e riportato, forse perché molto più complesso e più oscuro”.
Siamo entrati nell’era della Digital propaganda, come ci si può stupire solo adesso di questo uso dei dati?
“Il punto è che ogni giorno sui social capita qualche cosa che viene ripetuta tante volte. Se l’indice di viralità non è abbastanza alto perché non è il momento giusto o perché non viene condiviso dagli influencer allora la notizia non “buca”, anche se di peso. E’ il fenomeno dell’ “infobesità”: un tempo circolavano meno informazioni, ma si poteva approfondire un po’ di più. Adesso invece abbiamo a disposizione una mole infinita di informazioni ma tutto passa molto superficialmente ed anche i commenti spesso avvengono senza avere piena coscienza del contesto: avviene per i vaccini come per la politica. E quanto più è complessa è una tematica tanto più è superficiale l’approccio. E’ il cosiddetto “collasso del contesto”. Nel caso di Cambridge Analityca, però la cosa che stupisce è il taglio che i media hanno dato alla notizia, come se fosse una scoperta fatta oggi. Ripeto, sono anni che questa cosa è sotto gli occhi di tutti. Tant’è che ormai nelle giornate di divulgazione della cultura digitale per i manager io e i miei colleghi Francesco Derchi e Consuelo Sironi abbiamo introdotto stabilmente un modulo dove parliamo per un’ora intera di questo caso. Insomma, fra gli addetti ai lavori queste tecniche di manipolazione del consenso o di orientamento del gusto del pubblico sono ampiamente conosciute da tempo”.
Come è possibile che Zuckerberg non sapesse come lavorano certe app all’interno dell’ecosistema di Facebook ?
“ Zuckerberg è ben consapevole di come lavorano le sue applicazioni, il punto è che nessuno, né lui ne Larry Page di Google hanno una visione complessiva e a lungo termine delle implicazioni e delle conseguenze che può avere sulla società. Perché sono degli strumenti che lavorano sul globale- su culture e nazionalità molto diverse- ed è facile che possano andare oltre le finalità o le intenzioni che animavano il team di progettazione. Quindi io credo in realtà nella buona fede di un Mark Zuckerberg, che dobbiamo ricordare inizialmente escludeva categoricamente il ruolo di Facebook nell’influenza sull’opinione pubblica americana in occasione del voto del 2016. Poi dopo qualche mese è tornato sui suoi passi perché è andato a vedere cos’era successo e si è reso conto che lo strumento era effettivamente stato usato in un modo che lui non aveva previsto. Insomma è come il passaggio dalla fissione dell’atomo alla bomba atomica: lo scienziato non voleva ammazzare un sacco di gente. E’ uno strumento potentissimo che può sfuggire dalle mani di chi poi lo crea”.
Lui ora dice: regolamenteremo Facebook, troveremo il modo di renderlo più sicuro . Ma è giusto creare dei limiti alla libertà del web o è più rischioso questo, rispetto alle inevitabili possibilità di manipolazione dei dati in cui si può incorrere navigando e interagendo sui social?
“Il punto vero è che mentre il business digitale è globale, la legislazione per ora è nazionale. La globalizzazione di un sistema arriva sempre prima, la legislazione insegue l’innovazione, a meno che non scoppino dei casi come quello di cui si discute ora. Il trend del resto, è tracciato: stiamo imboccando una via che non ci permetterà più di tornare dove eravamo prima, non si può imbavagliare la rete e l’interconnessione digitale perché quello è lo standard delle nuove generazioni a cui non rinunceranno”.
“Rassegnamoci, la privacy per come l’abbiamo conosciuta sta morendo. E non c’è nessuno davvero interessato a farla tornare come era prima perché vorrebbe dire perdere tutte le comodità di cui noi disponiamo nel mondo on line perché i nostri dati hanno un valore economico. Noi possiamo usare gratis questi strumenti perché i nostri dati hanno un valore. Facebook ci accoglie dicendoci che sarà gratis per sempre perché il prodotto diventi tu. L’oggetto dello scambio è: privacy contro facilities ovvero le infinite opportunità di comunicazione, informazione, business digitale. La maggior parte delle persone sono disposte a difendere la privacy a parole, però se dovessimo davvero spegnere i dispositivi digitali, 1 su mille lo farebbe, perché ormai siamo tutti assuefatti a usare questi strumenti di utillità quotidiana”
Quindi l’unico modo per proteggersi è aumentare il livello di consapevolezza dell’utente?
“Penso che la consapevolezza digitale andrebbe portata a livello scolare, perché il digitale fa ormai intrinsecamente parte del nostro quotidiano. Il libro che ho scritto sulle competenze digitali nel lavoro e nella vita ha come obiettivo proprio quello di alzare l’asticella della maturità on-line delle persone qualunque cosa esse facciano, perché siamo tutti degli analfabeti digitali. La maggior parte dei problemi di privacy e cyber security sono originati da banalissimi errori che la gente fa perché non ha un minimo di buon senso digitale. Basterebbe poco”.