L’addio di Di Maio perchè “uno non vale uno”. Premier, ministro e quella manovra a tenaglia

La risoluzione della maggioranza in vista del Consiglio Ue passa al Senato a mani basse. Oggi il voto alla Camera. Mandato pieno a Draghi. Il governo non rischia. Almeno finchè Conte deciderà di restare in maggioranza. Una minaccia che l’ex premier agiterà spesso. Sollecitato da Di Battista

“Perchè sì - dice Luigi di Maio - uno non vale uno ed è necessaria la competenza. E il dovere di un buon politico oggi è dire la verità, ovverosia che non tutto quello che auspichiamo è realizzabile, che i problemi complessi esigono risposte complesse. Basta con i populismi e con i sovranismi . Siamo cambiati? Sì. Abbiamo sbagliato? Anche. Esserne consapevoli è quello che conta”. A parte i circa sessanta parlamentari seduti lì davanti che lo applaudono e fanno sì con la testa, tra i giornalisti partono occhiate sorprese, esclamazioni tipo “urca”, colpi di gomoti… “sta sconfessando tutto”. No, nessuna abiura. Troppo facile. E anche sospetto. Luigi di Maio ammette gli errori del passato e rivendica, dopo dieci anni in Parlamento, un percorso di crescita politica e istituzionale che lo ha portato ad essere oggi uno dei ministri di punta del governo Draghi. Sono le piccole grandi rivoluzioni nella vita degli individui. Sempre da osservare con piacere e soddisfazione.  

Una sala troppo piccola

La sala Giada al primo piano dell’hotel Bernini, cuore di Roma, è decisamente troppo piccola per fare da testimone ad un passaggio della cronaca parlamentare destinato a scrivere qualche paginetta di storia. Il ministro degli Esteri arriva puntuale alle 21.15. Ha la faccia tirata ma lo sguardo lungo di chi sa che ormai la decisione è presa. E che è inevitabile. Quando entra nella sala partono cinque minuti di applausi, baci, abbracci, qualcuno batte il “cinque”, altri lo osservano soddisfatti. C’è nell’aria il peso delle scelte difficili ma anche la leggerezza per la “liberazione”. Sì, ti dicono proprio così, "ci sentiamo liberati”. La viceministra Laura Castelli, Sergio Battelli e Carla Ruocco entrambi presidenti di Commissione, l’ex ministro Vincenzo Spadafora, il senatore Di Nicola, alla fine sono 51 deputati e undici senatori. Si chiameranno Insieme per il futuro #ipif . E come il titolare degli Esteri ha appena spiegato al Capo dello Stato Sergio Mattarella che ha voluto informare di persona prima della dichiarazione pubblica al Bernini, saranno una forza che appoggerà “responsabilmente il governo Draghi” perchè “in momenti complicati come questi non si può continuare a fare giochini solo per soddisfare un malinteso senso dell’ego e per strappare qualche punto di consenso che neppure arriva”. Qualsiasi riferimento è certamente non casuale.  

Lo strappo, quasi

Prima di raccontare cosa ha detto Di Maio e cosa succederà adesso, nel lungo film di questa ennesima giornata particolare per governo e maggioranza spicca la sequenza delle 14. Più o meno a quell’ora, la riunione di maggioranza riunita dalle 15 del giorno prima per scrivere la benedetta risoluzione da votare dopo le comunicazioni di Draghi in vista del Consiglio Europeo, si congela e decide di aggiornarsi a dopo le comunicazioni di Draghi per avere tempo di trovare un accordo sulla risoluzione. Lì si sarebbe sfiorato sul serio lo strappo. Sospetti incrociati su chi volesse spingere chi all'uscita dal governo, poi la ricomposizione, grazie al lavoro dei pontieri, con la formula del “necessario e ampio coinvolgimento delle Camere in occasione anche dei più rilevanti summit internazionali riguardanti la guerra in Ucraina e le misure di sostegno alle istituzioni ucraine, ivi comprese le cessioni di forniture militari”. Niente strappo alla fine (il testo arriverà in aula intorno alle 17), ma è una formula che mette Giuseppe Conte dalla parte degli sconfitti di questa partita. Nulla di quello che chiede da due mesi è stato preso in considerazione, a cominciare dal “basta armi all’Ucraina”. Si conferma in tutto e per tutto - nel testo della risoluzione e nelle parola di Draghi - il decreto n.14/2022 con cui a fine febbraio il Parlamento dette mandato pieno al governo per aiutare l’Ucraina in ogni forma e per cercare, in ogni modo, la pace.  Conte, tramite l’emissario D’Incà, avrebbe voluto cancellare quel decreto e alzarne lo scalpo nella sede di Campo Marzio e nell’ultimo scampolo di campagna elettorale. E invece resta il perno centrale di tutta la risoluzione. 

Per quello che riguarda il “passaggio parlamentare rafforzato” che negli interventi in aula dei senatori 5 Stelle diventa il nuovo scalpo da issare vittoriosi, nulla aggiunge e nulla toglie a quanto già accade adesso. Con un pugno di mosche in mano, i senatori 5 Stelle alla fine votano compatti per la risoluzione. Si astiene una sola senatrice (Giulia Lupo) e sono assenti al voto alcuni big come Paola Taverna. Mario Draghi domani si presenterà a Bruxelles e qualche giorno dopo all’assemblea Nato e al vertice del G7 con una mandato pieno e, anzi, rafforzato: ha avuto 219 Sì, 22 astenuti e 20 contrari. Il premier si è levato la soddisfazione di esaltare la sua vittoria. “Ringrazio -  ha voluto sottolineare nella sua replica a palazzo Madama - perchè il sostegno è stato unito e l'unità, come molti di voi hanno osservato, è essenziale specialmente in questi momenti. Ringrazio infine anche per un altro motivo, quasi personale: in questi momenti, quando il Paese è sia pure indirettamente coinvolto in una guerra, le decisioni che si devono prendere sono molto complesse, profonde, con risvolti anche morali. Per cui avere il sostegno del Senato nel prendere queste decisioni è molto, molto importante, per me”.  

La misura era colma

Più di un testimone al tavolo della trattativa a palazzo Cenci  afferma con “in queste 24 ore è stata evidente la manovra a tenaglia tra il ministro Di Maio e il premier Draghi”. In mezzo l’ex premier Conte che invece era convinto di aver sfidato e messo nell’angolo (anche con la storia del doppio mandato) colui che “maggiormente lo ostacola nella sua azione di leader della prima forza parlamentare". Era convinto, Conte, di poter spingere Di Maio fuori dal Movimento con “una decina al massimo di amici”. Tutta gente - è stata l’aggiunta velenosa insostenibile (per Di Maio e soci) - di pesante solo ai soldi delle restituzioni e al posto in lista che non avrebbero avuto nel 2023. Va ricordato infatti che da Conte dipende il destino di molti parlamentari 5 Stelle giunti alla fine del secondo mandato. Fonti di governo di governo dicono che Draghi, sentito sullo stato delle cose, abbia risposto un interlocutorio “vediamo” circa la preoccupazione circa la stabilità del governo. Di Maio e Draghi sono stati seduti accanto per tutto il giorno. Altrettanto faranno oggi. E’ chiaro che Draghi sapeva tutto per filo e per segno di quello che stava accadendo nei 5 Stelle. Il premier sapeva bene come la misura per il titolare della Farnesina fosse colma da tempo per via degli attacchi continui. Una sorta di sfiducia progressiva al ministro degli Esteri che invece deve essere una delle colonne portanti dell’affidabilità di un paese e del governo.  I due hanno maturato un buon rapporto in questo anno e mezzo insieme a palazzo Chigi a fronteggiare dopo il Covid, l’emergenza della guerra.  

Ammettere gli errori  

L’aula del Senato vota alle 18 e 48 minuti. Sarà l’ultima volta del Movimento 5 Stelle per come l’abbiamo conosciuto, cioè “la prima forza politica parlamentare”. A quell’ora la macchina del ministro Di Maio ha già chiare le prossime mosse: le firme sono già state raccolte, il nome c’è (Insieme per il futuro, acronimo IPIF), la sala all’ hotel Bernini è stata prenotata. Si aspetta però, giustamente, la fine del voto. Poco dopo le 20 la convocazione. Di Maio comincia rivendicando cosa sta facendo il governo, la diplomazia che non ha mai cessato di lavorare per la pace, la battaglia per liberare il grano, evitare disastri umanitari e nuovi flussi migratori, la ricerca continua di nuove fonti energetiche per affrancarsi dalla Russia, l’altra fondamentale battaglia per bloccare la speculazione del prezzo del gas, il vero problema di famiglie ed imprese. Tutto questo non conta, ha detto con rammarico Di Maio, “sacrificato sull’altare di chi pensa solo al proprio tornaconto personale”. Non nominerà mai Giuseppe Conte. Si rivolge invece di continuo al Movimento.  “Mi sono interrogato a lungo sul percorso che il M5s ha deciso di  intraprendere, un percorso di odio, che guarda al passato. Ci siamo ancorati a vecchi modelli. E’ necessario invece aprirsi al confronto e riconoscere che atlantismo ed europeismo sono le uniche famiglie possibili. E dobbiamo farlo riconoscendo gli errori del passato”. 

Di Maio ha il volto tirato, sono stati mesi e settimane lunghe, piene di attacchi, a partire da gennaio quando Conte gestì con Salvini la trattativa sul Presidente della Repubblica. “Voglio dire grazie al M5s per tutto quello che ha fatto per me, sono anche convinto di aver ricambiato dando il massimo per il Movimento in tutti questi anni. Sono stati anni intensi, ricchi di emozioni, successi ma anche grandi sofferenze e quella di oggi è una scelta sofferta che non avrei mai immaginato di fare”. Da oggi inizia quindi “un nuovo percorso con persone che hanno scelto di guardare al futuro. Benvenuti a chi vorrà unirsi al nostro viaggio. Abbiamo bisogno di aggregare le migliori capacità e talenti di questo Paese perchè uno non vale l’altro”. E’ la negazione del mantra M5s. E’ davvero l'addio.  

Che fine fa il campo largo di Letta?

Ora i fari sono puntati sui prossimi provvedimenti dell'esecutivo per fare fronte alle conseguenze economiche del prolungamento del conflitto, con fibrillazioni destinate ad aumentare dopo la rottura tra i pentastellati. Prima di tutto la scissione toglie a Conte il primato della prima forza politica in Parlamento in nome della quale avrebbe preteso da Draghi più attenzioni e considerazione. Il divorzio tra Conte e Di Maio pone interrogativi anche negli altri partiti. Che succede ora al campo largo di Letta? Il segretario dem ieri ha taciuto per rispettare “il momento di difficoltà di una forza alleata”. In generale Letta ha spiegato di voler parlare con entrambi ma cresce il fronte nel Pd di chi vorrebbe avere come interlocutore il ministro degli Esteri e non l'ex presidente del Consiglio. Matteo Renzi ieri si è ben guardato dal festeggiare la fine del Movimento da lui prevista mesi e mesi fa. Ha invece volato alto sulla politica estera, ha messo in fila tutte le difficoltà del momento mettendo da parte ogni genere di ottimismo e ha chiesto al Parlamento di “mettersi a lavorare per il bene del Paese almeno fino alla fine dell’anno”. Basta con i “teatrini”.   Ipotizza, sempre Renzi (ieri spesso applaudito anche dai banchi del Pd)  che il segretario Pd dia vita a un'operazione “stile Ulivo”. Nei campanelli al Senato il convitato di pietra torna ad essere la legge elettorale. E la Lega che si ritrova ad essere la prima forza politica in Parlamento. Con maggior potere contrattuale.

Ai radar del Quirinale non sfugge che una scissione potrebbe creare onde che finirebbero per lambire il governo.  Già ieri c’è stato questo timore. Ma se tutte le forze di maggioranza continueranno a sostenere i provvedimenti dell'esecutivo, senza mettere in mora la presenza di questo o quel ministro, potrebbe non esserci nessuna ripercussione sulla tenuta di Palazzo Chigi. Non c’è dubbio che Conte stia meditando l’uscita dal governo per avere mani libere nella campagna elettorale. L’ex premier lo ha detto in pubblico anche una settimana fa dopo il magro risultato elettorale. Ma a quel punto il gruppo diventerebbe davvero esiguo.