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[L'analisi] Vi spiego perché i frutti dell’accordo italo-cinese hanno un buon sapore, ma anche tante spine

Il pugno di accordi siglati in questi giorni contiene un pacchetto di benefici e, forse, molti costi erano stati sopravalutati. Altri costi, però, politici ed economici, sono stati dimenticati

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
Il presidente cinese Xi Jinping e Mattarella
Il presidente cinese Xi Jinping e Sergio Mattarella

Chissà se, a Palazzo Chigi, hanno pensato ad una analisi costi-benefici anche per il Memorandum di intesa firmato con Pechino. Perché il pugno di accordi siglati in questi giorni contiene un pacchetto di benefici e, forse, molti costi erano stati sopravalutati. Altri costi, però, politici ed economici, sono stati semplicemente dimenticati, ma, già dai prossimi giorni, anche guardando in Europa, dovremo cominciare a contarli. Come per i fichi d'India, i frutti dell’accordo italo-cinese hanno un buon sapore, ma anche un problema di spine.

Arance e fichi d'India

Peraltro, i fichi d'India no, ma le arance sì, rientrano a pieno titolo negli accordi: la prima intesa siglata in questi giorni prevede che i tarocchi possano essere spediti sui mercati cinesi anche per via aerea. Non è molto, ma il grosso arriverà dagli accordi con le grandi aziende, dalla Snam all’Ansaldo. I cinesi si sono anche dichiarati disponibili a finanziare iniziative italiane: i Panda Bond (in valuta locale) dovrebbero rastrellare capitali cinesi (pilotati dallo Stato, probabilmente) per sostenere le nostre imprese sul mercato cinese. Per l’Italia, in parte, si tratta di recuperare terreno perduto. I collegamenti fra Italia e Cina sono più scadenti di quelli di Belgio e Spagna, dicono i tecnici Onu. Esportiamo meno degli altri paesi europei e attiriamo meno investimenti. Negli ultimi dieci anni, Pechino ha investito in Gran Bretagna il quadruplo, in Germania il doppio di quanto investito in Italia.
Sono dati, però, meno sorprendenti di quanto potrebbe sembrare a prima vista. In materia di investimenti cinesi, la Francia è più o meno nella stessa situazione. Esportiamo meno della Germania, anche perché non produciamo i beni d’investimento ad alta tecnologia che sono la specialità tedesca. E investire in Italia, un paese che non cresce da vent’anni, con un sistema giudiziario in cui gli stranieri si perdono, richiede un atto di fede coraggioso anche per i discepoli di Confucio.

La strada da fare

Insomma, nonostante i periodici pellegrinaggi che i governi italiani compiono a Pechino, c’è sempre molta strada da fare. Bisogna capire, però, se questa strada, oggi, doveva essere per forza la Via della Seta e perché i cinesi, ora, hanno preteso che lo fosse. Accordi Pechino ne firma a ripetizione in Europa e altri arriveranno, nelle varie capitali, nei prossimi giorni. Quelli specificamente siglati nella due giorni romana non fanno traballare le sedie. Rispetto alla grancassa delle scorse settimane, la pila delle intese si è assai ridimensionata: gli accordi commerciali non sono più di una decina, in parte già noti (come quelli per nuovi impianti in Asia di Danieli e Snam). Nessuna intesa specifica sulle tlc, ma, invece, sui porti di Genova e Trieste. L’interesse cinese per queste due porte d’ingresso ai mercati europei è ovvio, ma solo nei prossimi giorni si capirà se i cinesi entreranno nell’azionariato dei porti (come già nel terminal di container di Vado Ligure) e in che misura l’Italia si indebita per realizzare le nuove opere. E, soprattutto, si capirà se il fatto che, a firmare, sia il colosso delle costruzioni Cccc significa che gli investimenti nelle nuove infrastrutture saranno convogliati ad aziende cinesi o se le opere saranno aperte – e come - ad appalti internazionali, un tema che, già nelle prossime settimane, può diventare esplosivo.

Il peso della cornice

Per il momento, comunque, non pare che, per quanto significativo, il riscontro – in termini di finanziamenti e investimenti – determini una svolta storica nei rapporti economici Italia-Cina. Ma il Memorandum di intesa che accompagna questi accordi costituisce, invece, una svolta nei rapporti politici. E quegli accordi commerciali, forse, non valgono questo prezzo. Con la firma italiana, la Via della Seta – che è, fino ad oggi, la strategia di penetrazione globale a cui Xi Jinping più affida le proprie ambizioni – approda, infatti, in Europa in un paese che fa parte dei Sette Grandi del G7, è fra i fondatori della Ue ed ha la seconda industria manifatturiera d’Europa. Dopo aver rastrellato le adesioni di paesi marginali e, quasi sempre, sottosviluppati, è una sorta di legittimazione internazionale. Il testo del Memorandum è sufficientemente vago e fumoso, da non contenere impegni precisi, ma, in questi casi, i documenti possono essere tanto stirati e allargati da farci rientrare quasi tutto. Dipende dai rapporti di forza dei contraenti. Il nodo è proprio qui.

Strada a senso unico?

Per giudicare la nuova amicizia italo-cinese, in effetti, non bisogna guardare solo quello che sta avvenendo a Roma, ma quanto, contemporaneamente o quasi, accade a Pechino, a Bruxelles, a Parigi. La domanda che la due giorni romana di Xi pone, infatti, è: ma la Via della Seta è senso unico? In cambio della apertura italiana, c’è una reciproca apertura cinese? Pechino apre il mercato delle sue infrastrutture, dà garanzie di repressione del mercato del falso, blocca i tentativi di dumping delle aziende cinesi (spesso foraggiate dal denaro di Stato), pone fine al sistematico saccheggio delle tecnologie straniere? A Pechino, proprio in questi giorni, è stata varata la nuova legge sugli investimenti stranieri, attesa da 40 anni. Anche se livella un po’ la disparità giuridica fra aziende statali e straniere, i tecnici dicono che è ancora troppo vaga per dire che viene incontro alle preoccupazioni che europei e americani esprimono da sempre. Poteva l’Italia ottenere di più? Evidentemente no, ma questo è, esattamente, il punto. Martedì, in preparazione del vertice con la Ue che avrà il 9 aprile, Xi incontrerà a Parigi, tutti insieme, Macron, la Merkel e il presidente della Commissione, Juncker. Lì l’Europa, in una esibizione di unità, potrà far valere, in materia di trattamento delle aziende straniere, tutto il suo peso. Macron, Merkel, Juncker: l’Europa è quella e l’Italia non c’è. Roma paga così il canale privilegiato appena aperto con Pechino.

Equivoci e sospetti

A Bruxelles non è il momento dei processi. Tuttavia, non è passato inosservato che, la scorsa settimana, quando si è trattato di votare un regime di stretto monitoraggio degli investimenti cinesi in Europa, soprattutto nei settori ad alta tecnologia, l’Italia, che pure era stata fra i proponenti, alla vigilia dell’arrivo di Xi a Roma, ha votato contro. E la prova del fuoco sta per arrivare. La Commissione propone (e, ieri, il summit dei capi di governo, Conte compreso, ha dato il via libera) che si stabilisca un reciprocità internazionale in materia di opere pubbliche. Le aziende che provengono da paesi (vale per la Cina, come per gli Stati Uniti), dove gli appalti per le opere pubbliche non sono aperti alle aziende Ue, dovrebbero vedersi ostacolato l’accesso agli appalti europei. Se non un blocco, una sorta di penale, che azzoppi le loro offerte, rendendole più costose. Per ora, è solo un annuncio. Ma per i colossi cinesi che stanno per mettere mano – accordi appena firmati alla mano - ai porti di Genova e Trieste, è una bomba. Vedremo se esploderà.

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
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