Spiragli per evitare la crisi: la nuova scissione grillina e il governo senza poteri fino a metà novembre

Nella nuova maggioranza ci sarebbe comunque una larga fetta di Movimento 5 Stelle. Mentre sale il pressing interno e internazionale, il premier sta anche facendo i conti con la prospettiva di dover comunque restare a Chigi almeno fino a metà novembre. Con poteri dimezzati

Foto Ansa
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Il terzo giorno, su cinque, della verifica parlamentare della crisi di governo vede prevalere per la prima volta le colombe. Sono piccoli cenni di “apertura” per trovare una soluzione  mentre il premier dimissionario ma congelato resta silenzioso nella campagna umbra, osserva ed ascolta come si stanno muovendo i partiti della larga maggioranza, prepara il viaggio di oggi quando con mezzo governo sarà ad Algeri per firmare importati accordi sul gas e su altr scambi commerciali. E lima, corregge, aggiusta il discorso che mercoledì mattina pronuncerà prima al Senato e poi alla Camera. Da quel discorso dipenderà il proseguimento della legislatura per avviarla alla sua ordinata conclusione. Oppure lo scioglimento  anticipato delle camere e il voto. Sono già state individuate le possibili date: 2 e 9 ottobre. Sarebbe la prima volta nella storia della Repubblica.

Tra scorci e spiragli

I timidi segnali positivi arrivano dal Movimento 5 Stelle sull’orlo dell’ennesima scissione che lascerebbe Conte con poco più di 130 parlamentari contro i 330 del 2018. Filtrano  anche da persone vicine al presidente del Consiglio che pare non rispondere a nessuna telefonata tranne quelle che decide lui di fare: al premier non piacerebbe affatto l’idea di dover comunque restare a palazzo Chigi almeno fino a metà novembre senza però toccare sostanzialmente palla. Un logoramento assai peggiore di quello attuale e sicuramente non utile al suo standing e alla sua autorevolezza da uomo e leader pragmatico.

La premessa è che in queste ore occorre essere armati di strumenti e conoscenze utili per leggere in controluce tutte le tattiche e pretattiche in corso su ogni tavolo di questa crisi di governo.

Governisti contro Conte

Il primo segnale positivo, per chi crede che la fine del governo Draghi sarebbe un clamoroso esempio di tafazzismo nazionale, arriva dal Movimento 5 Stelle.  All’ennesimo ultimatum di Conte, quello di sabato sera “caro Mario, o rispondi alle nostre richieste oppure siamo pronti ad uscire dalla maggioranza e dare sostengo solo ai dossier da noi condivisi”, una trentina di parlamentari, “più verosimile un gruppo di 20-25 persone per lo più deputati” spiega una fonte stellata, hanno risposto picche. Anzi, “ora basta - è il senso di numerosi interventi- ci stiamo facendo del male. Stiamo dentro per condurre in porto le nostre battaglie. Come abbiano sempre fatto. Uscire dalla maggioranza ci confinerebbe nella solita inutile solitudine”. Ma Conte non molla, “prende tempo, non decide, continua a convocare assemblee (due anche ieri e ciascuna aggiornata dopo qualche ora, si ricomincia stamani ndr). E’ chiaro che sta ritardando ogni decisione finale per tenere tutti appesi ed evitare che ci sia un’altra scissione”.  La cronaca dell’assemblea del Consiglio nazionale e poi dei parlamentari - tra una cosa e l’altra ormai siamo più o meno alla cinquantesima ora di convocazione - meriterebbe un resoconto a parte. E’ la cronaca in diretta dell’implosione di un Movimento politico che pensava di cambiare il mondo e alla fine ha solo cambiato se stesso. Conte sarebbe in realtà il capo dei falchi, il più convinto - e da mesi - che il governo Draghi vada logorato fino a farlo implodere. Un senatore che ha seguito Di Maio nel gruppo “Insieme per il futuro” racconta come ai tempi dell’ultima legge di bilancio, Conte incontrasse i gruppi parlamentari per suggerire di presentare 2500 emendamenti. “Presidente, perchè, siamo in maggioranza…” chiedevano ingenui i parlamentari. “Dobbiamo logorare questo governo di usurpatori” era la risposta. Nel gioco delle parti di queste ore, Conte si presenta come mediatore ma in realtà ha già deciso: uscire, appoggio esterno. Peccato che Draghi, con la mossa delle dimissioni, lo abbia spiazzato.

Operazione Svuotamento

Il tema è questo. Draghi ha detto che la sua maggioranza deve avere a bordo i 5 Stelle: “No Draghi bis senza M5s”. Un’affermazione a cui, secondo alcuni osservatori, il premier sarebbe rimasto impiccato. Perchè, chi sono oggi i 5 Stelle? Del gruppone di 330 deputati eletti nel 2018 ne sono rimasti in tutto 166. Se, come ieri sera più fonti confermavano, altri 20-30 parlamentari passeranno in queste ore o nel Misto o direttamente nel gruppo con Di Maio che arriverebbe a circa cento parlamentari, è legittimo chiedersi quale sia oggi il vero gruppo 5 Stelle: quello governista di Di Maio? O quello barricadero, che vuole gridare un bel vaffa e tornare fuori dal palazzo per dirne peste e corna?

L’operazione Svuotamento è in corso. Oggi è una giornata importante. Ed è chiaro che Draghi dovrà prendere atto del fatto che il Movimento ha come minimo due facce. E dunque: quale vuole avere in maggioranza? Non è un caso che Di Maio già da giovedì parli del Movimento come del “partito padronale di Conte dove l’unico obiettivo è assegnare qualche posto nel prossimo parlamento”. 

Il governo condannato alla palude

Il secondo elemento “positivo” ,nel senso di una possibile prosecuzione del governo, è che il Presidente del consiglio sta facendo i conti con una prospettiva comunque logorante per la sua immagine e il suo standing: se anche il Presidente della Repubblica firmasse entro la fine di luglio il decreto di scioglimento delle Camera, Draghi è destinato a restare in carica fino all’insediamento del successore. Tutti gli esperti calcolano questo tempo in minimo quattro mesi. Voto il 2 ottobre, insediamento Camere, entro 25 giorni elezione organi direttivi, consultazioni, formazione e giuramento del nuovo governo: tra i tempi tecnici e quelli della politica (il Conte 1 impiegò tre mesi prima di nascere e non è detto che i risultati del prossimo voto diano una maggioranza certa), dal voto all’insediamento del governo passa come minimo un mese e mese e mezzo. Draghi dovrà stare in carica, per bene che gli vada, almeno fino a metà novembre. Con poteri però assai ridotti perchè per quanto non sfiduciato, sarà alla guida di un governo dimissionario.

I costituzionalisti si stanno confrontando in queste ore sui reali poteri di un governo Draghi dimissionario. E partono da due presupposti: dando un’occhiata anche solo alla scheda di sintesi del ministero con i Rapporti con il Parlamento - scriveva ieri matina su Il Sole 24 ore il professor Francesco Clementi - “sono tantissimi i provvedimenti normativi che a causa della crisi e dei suoi tempi tecnici non vedranno la luce”. Non è un caso che la truppa dei nuovi uscenti dal Movimenti potrebbe essere guidata proprio dal ministro con i Rapporti col Parlamento Federico d’Inca e dal capogruppo alla Camera Davide Crippa.

Clementi scrive anche che “riguardo ai poteri di un governo dimissionario ma non sfiduciato il nostro ordinamento ha pochissima linee guida”. Al netto di quella principale: non ci può essere vacatio tra governo uscente ed entrante.

Escluso il voto di fiducia

Aggiunge il professor Ceccanti, costituzionalista e deputato Pd: “Con lo scioglimento delle Camere si avrebbe la palude, il governo di fatto non potrebbe utilizzare i decreti legge sarebbe complicato anche attuare le deleghe legislative. Si riflette poco sul fatto importantissimo che a Camere sciolte la decretazione d'urgenza è praticamente ingestibile perché non si può porre la fiducia. E l'ordinaria amministrazione porta a una palude”. Non solo:  “Oltre alla difficile gestibili della decretazione senza fiducia sarebbe un pio desiderio a Camere sciolte pensare di gestire senza problema le deleghe legislative la cui attuazione è materia di scelte politiche prima che tecniche. In quel caso vedo molto male il Pnrr”. Per dirla in un gergo meno accademico    

Draghi corre il serio rischio di dover comunque restare a palazzo Chigi fino a metà novembre senza poter fare praticamente nulla e costretto a subìre lo scempio di veder distrutto quel tanto di buono fatto in questi diciassette mesi. 

Un governo dimissionario infatti seppur non sfiduciato non può mettere fiducia. Per cui sarà impossibile convertire, senza fiducia, i decreti approvati in extremis nelle prossime ore e indispensabili (senza dubbio il decretone energia atteso proprio per la fine di luglio).  Decreto Concorrenza e Fiscale, che sono due deleghe al governo, devono ancora essere approvati da un ramo del Parlamento (il tempo era appunto fine luglio). Come si fa senza fiducia? E, quand’anche si ritardasse di qualche giorno il decreto di scioglimento proprio per questo motivo, restano da approvare tuti i decreti delegati senza i quali le leggi sono vuote. I decreti delegati devono comunque avere il via libera del Parlamento entro tempi determinati ( in questo caso la fine dell’anno). Difficile immaginare un Parlamento in campagna elettorale che approva i decreti della delega fiscale o del Concorrenza.   Per non parlare di tutti i provvedimenti legati al Pnrr: forse per questi c’è speranza anche per un governo dimissionario. Non è chiaro. Ma insomma, la prospettiva è quella della palude.

Evitare l’effetto Schettino

Ecco perché Draghi alla fine potrebbe essere “costretto” a dire ci riprovo e senza doversi rimangiare molto. Di sicuro stare quattro mesi a palazzo Chigi e spolverare le sedie oltre che disastroso per il Paese non farebbe bene al suo standing internazionale. E nazionale. Sono già più di mille i sindaci che hanno firmato la lettera “Presidente Draghi resta”. La petizione popolare di Italia viva ha toccato le centomila firme in 48 ore. Oggi andranno in piazza a Roma gli studenti (ore 18.30, piazza San Silvestro). E poi le cancellerie occidentali (le uniche con cui Draghi avrebbe parlato in queste ore).

C’è un movimento enorme popolare e dal basso che gli chiede di non lasciare. Ignorare tutto questo potrebbe anche essere scambiato come un abbandono della nave in difficoltà. E di sicuro Mario Draghi non vuole essere neppure per sbaglio assimilato ad una sorta di “effetto Schettino”, il capitano della nave crociera che appunto abbandonò la sua nave mentre stava affondando.