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[L’analisi] Renzi, Gentiloni, Calenda e gli altri: la strana sindrome di chi ha perso il potere

Non hanno perso una battaglia. Sono stati sconfitti. Ma rinunciare facilmente al potere è una impresa ardua. In pochi ci sono riusciti, come Marco Follini, «il giovane dc più intelligente», come lo descriveva Bisaglia a Romiti, poi alleato polemico di Berlusconi nella seconda Repubblica. Lui è riuscito a ritirarsi serenamente quando ha capito di essere stato tagliato fuori dai giochi, ma ha poi confessato di aver sofferto di più all’inizio, durante «il passaggio dalla prima alla seconda fila, quella zona d’ombra che ha significato vivere anni difficili e prendere coscienza del cambiamento che maturava attorno a te»

[L’analisi] Renzi, Gentiloni, Calenda e gli altri: la strana sindrome di chi ha perso il potere

Alla fine Matteo Renzi, alla prima Leopolda degli sconfitti, non è riuscito a non parlare di sé e dei suoi tempi andati, del potere che non c’è più: «Io ho rappresentato un pezzo di popolo importante perché non c’è leader senza un grande popolo», ha tuonato dal palco, esibendo e sfoggiando ancora una volta il suo ego, perché «con la personalizzazione abbiamo preso due volte il 40 per cento, e con la spersonalizzazione il 18». La sondaggista Alessandra Ghisleri l’ha commentato senza pietà, dicendo che è stato un fallimento «perché parla solo di sé, come tutto il pd anche, senza alcun contributo a indicare un’altra alternativa all’attuale governo: in questo scenario la gente non capisce e il partito rischia di sparire». Sulle note di «Quelli che restano», di Francesco De Gergori ed Elisa, la colonna sonora della Leopolda, «quelli che restano in piedi e barcollano sui tacchi che ballano», sono sfilati gli uomini di un passato che appare così lontano anche se era solo ieri e quelli che sono ancora in sella, politici e non, come Renato Mazzoncini, amministratore delegato delle Ferrovie, o Ernesto Maria Ruffini, di Equitalia. Perché non c’è soltanto Renzi a rimpiangere il suo passato. Maria Elena Boschi si riduce a far da modella per un discutibile servizio fotografico su Maxim pur di non perdere contatto con il successo. Carlo Calenda passa da un’intervista all’altra, scrive libri, programma cene che disdice subito, ormai desolatamente critico con tutto e con tutti, alla ricerca disperata di un centro di gravità permanente. Gentiloni, Pietro Grasso, l’ex ministro della Giustizia Orlando girano ancora tutti con la scorta, come è giusto che gli spetti, ma è nelle posture, negli atteggiamenti, nei dinieghi frettolosi che ritrovi quelle scorie del potere e della fama da cui è difficile distaccarsi.

Perdere il potere dev’essere un trauma psicologico paragonabile a quello degli innamorati abbandonati nel pieno del loro sentimento, lo stesso senso di vuoto e di scoramento. E qui non c’è nemmeno la compassione, o la vergogna, o il disinteresse del nuovo compagno o della nuova compagna che ti hanno portato via l’amore. In politica c’è lo sberleffo, la rivalsa, perfino l’odio di quelli che ti hanno sostituito. E non serve aver ragione, ripetere al mondo che tu l’amavi di più. Il potere che ti abbandona ritorna solo ai perseguitati. Non agli sconfitti. E c’è una bella differenza. Oggi, nonostante quello che sostiene Renzi, lui, il pd e Berlusconi non sembrano assolutamente in grado di poter rientrare in un qualsiasi schema di alternanza, come lo concepiscono loro. Non hanno perso una battaglia. Sono stati sconfitti. Ma rinunciare facilmente al potere è una impresa ardua. In pochi ci sono riusciti, come Marco Follini, «il giovane dc più intelligente», come lo descriveva Bisaglia a Romiti, poi alleato polemico di Berlusconi nella seconda Repubblica. Lui è riuscito a ritirarsi serenamente quando ha capito di essere stato tagliato fuori dai giochi, ma ha poi confessato di aver sofferto di più all’inizio, durante «il passaggio dalla prima alla seconda fila, quella zona d’ombra che ha significato vivere anni difficili e prendere coscienza del cambiamento che maturava attorno a te». Ora rivendica l’orgoglio di aver «concluso a modo mio, cosa che concede libertà infinita». Ma Follini sembra una mosca bianca. Al contrario di Massimo D’Alema, che forse incarna come pochi e spiega meglio e più di altri questo rapporto quasi inscindibile con le abitudini e i riti di un mondo difficile da abbandonare: «La politica è una scelta di vita. E’ una malattia da cui non si guarisce. E’ qualcosa che ti rimane addosso. Non è un lavoro che si fa per un certo tempo e poi se ne fa un altro». Solo che forse è proprio questo strano morbo a impedire di cogliere i mutamenti radicali della realtà, simboleggiati in quella foto solitaria del lider Maximo nella hall dell’albergo, il mattino dopo la sconfitta del 4 marzo, con il mento appoggiato sulla mano e gli occhi fissi sul vuoto, senza più nessuno attorno, senza la corte dei giorni belli.

Ma a restare troppo agganciati al potere, anche quando non c’è più, si corre il rischio di finire vittime della sindrome di Hubris, scoperta da Lord David Owen e dallo psichiatra Jonathan Davidson, che è una vera e propria malattia che produce un effetto paradosso, una distruttività verso gli altri e persino verso ciò che si è ottenuto fino allora. Il potere, va detto, non è sempre positivo. Una ricerca di Adam Galisnky, professore di management e organizzazione, sostiene che «riduce la capacità di capire come gli altri vedono, pensano e sentono».  E Dacher Keitner, docente di psicologia a Berkeley, dopo due decenni di ricerche ed esperimenti s’è convinto di poter affermare che «i soggetti in posizione di potere agiscono come se avessero subito un trauma cerebrale. Diventano più impulsivi, meno capaci di considerare i fatti con il punto di vista degli altri». Ma perdere il potere può peggiorare questa condizione e «le capacità di prendere decisioni verrebbero seriamente compromesse», quando si è vittime della sindrome di Hubris, come ha spiegato Sarah Boseley in un articolo sul Guardian, nel quale ha elencato i sintomi di questa malattia. Il primo è quello di «intendere il mondo come un posto ove autoglorificarsi»; poi insistere ad «agire soprattutto per migliorare la propria immagine personale»; «manifestare disprezzo nei confronti di tutti quelli che vivono come possibili avversari»; «perdere il contatto con la realtà» e infine avere «un comportamento irrequieto guidato da azioni impulsive». Per ora, è ovvio, nessuno ha la sindrome di Hubris. Ma chissà perché questo elenco mi ha fatto guardare con sospetto un mucchio di possibili candidati che siedono su tutto l’emiciclo del nostro amato Parlamento. Nessun partito eslcuso.  

Pierangelo Sapegnodi Pierangelo Sapegno, editorialista   
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