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[Il retroscena] La secessione dei ricchi, così la Lega vuol tagliare le risorse alle regioni più povere

Il progetto vedrà la luce, nei suoi dettagli, il 15 febbraio, approderà, a marce e voti forzati in Parlamento dove, una volta approvato, non potrà essere modificato per 10 anni, senza l’assenso delle regioni interessate

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
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Lo hanno presentato come un incontro di lavoro Governo-Regioni per la messa a punto del progetto di nuove autonomie regionali. Di fatto, quello di ieri pomeriggio a Palazzo Chigi è stato un vertice operativo della Lega: presenti Salvini, il suo braccio destro nei corridoi del governo, Giorgetti, i governatori leghisti di Veneto e Lombardia, Zaia e Fontana, il ministro per gli Affari Regionali Erika Stefani (leghista). Su un tema che – proclama ad alta voce una petizione firmata da 15 mila fra giuristi, economisti, esperti – riguarda tutti gli italiani, ma che la Lega ha praticamente sequestrato, recintando accuratamente ogni possibilità di dibattito e di discussione. E che intende portare fino in fondo, sulla punta del ricatto di una crisi di governo, a tempi serratissimi. Il progetto vedrà la luce, nei suoi dettagli, il 15 febbraio, approderà, a marce e voti forzati in Parlamento dove, una volta approvato, non potrà essere modificato per 10 anni, senza l’assenso delle regioni interessate. Dopo quel voto l’Italia non sarà più la stessa. Nato sulla base di un assai vago mandato referendario, presentato come una mera traduzione burocratico-amministrativa, quello che conosciamo del progetto leghista lo definisce invece come un candelotto di dinamite, acceso sotto la costruzione unitaria del paese.

Non basta dimenticare Garibaldi

In realtà, infatti, il progetto leghista fa molto di più che ribadire la tradizionale divisione Nord-Sud del paese. In prospettiva, è una sorta di deflagrazione che frammenta l’Italia in venti pezzi, geograficamente scompaginati, ma secondo un criterio ben preciso. Da una parte, una sorta di troncone che, dalle grandi regioni del Nord (Piemonte, Lombardia, Veneto) scende, via Emilia e Toscana, fino al Lazio. Dall’altra, tutto il resto del paese. La linea di divisione è costituita da quello che i tecnici chiamano “residuo fiscale”: la differenza fra il gettito delle tasse in quella regione e la spesa pubblica che riceve. Le grandi regioni del Nord e del Centro hanno un residuo positivo. Un cittadino lombardo paga 5.600 euro di tasse l’anno in più, rispetto a quanto riceve in spesa pubblica per scuola, sanità, welfare. Per un italiano che vive nel Lazio la differenza fra tasse e servizi è di 3.600 euro l’anno. In Emilia 3.200, nel Veneto 2 mila, in Piemonte poco più di mille, 7-800 euro in Toscana e a Bolzano. Solo Lombardia, Veneto ed Emilia hanno chiesto nuove forme di autonomia, ma niente impedisce alle altre regioni di questo troncone di accodarsi.

Di contro, ci sono le regioni dove lo Stato spende più di quanto incassa. Marginalmente per Marche, Liguria e Friuli. Ma oltre mille euro per abitante in Umbria, 2 mila in Campania, 3.500 in Sicilia, 4.300 euro in Sardegna, 5.500 in Calabria. La “secessione dei ricchi”, come è già stata chiamata, farebbe saltare l’ingranaggio di solidarietà che, dall’unità d’Italia, ha governato il trasferimento di risorse dalle regioni ricche a quelle povere.

La lega dei referendum

A questo risultato si arriva con una serie di colpi di mano, ognuno singolarmente non avvertibile nella sua importanza. Una sorta di scivolamenti progressivi verso la secessione. Si comincia con i referendum dell’ottobre 2017. Oggi, Zaia, Fontana e i vertici leghisti si rifanno a quei referendum per rivendicare la legittimità delle riforme in vista. Ma niente, nella formulazione dei quesiti, faceva indovinare meccanismi così esplosivi. Nel Veneto, dove il referendum ha sicuramente vinto, con il sì del 60 per cento degli aventi diritto al voto, il quesito proponeva semplicemente “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, non meglio definite. Più accurato il referendum lombardo che, almeno, specificava che il trasferimento doveva avvenire “con le relative risorse”. Ma in Lombardia, con il sì del 36 per cento degli aventi diritto al voto, i leghisti hanno tecnicamente vinto (non c’era quorum), ma politicamente perso. Con la stessa formulazione generica, il risultato dei referendum viene acquisito nel contratto di governo gialloverde. E, a questo punto, sequestrato, nascosto e rifinito nelle stanze della Lega. E’ qui che ne viene messa a punto la carica esplosiva.

I miei soldi a me

Il progetto iniziale della Lega era quello di riservare di diritto, alla singola regione, la quota preponderante del proprio gettito fiscale. E’ un’idea mai sottoposta a referendum (né avrebbe potuto, visto che il gettito fiscale riguarda tutti gli italiani) e presto abbandonata, per manifesta incostituzionalità. Ma è stata sostituita con un marchingegno ugualmente dirompente, anche se non altrettanto facilmente visibile. Lo spostamento di risorse, come ha dichiarato ancora ieri il governatore lombardo, Fontana, non c’è. Ma ci sarà. Funziona così. Si calcola quanto lo Stato spende, in Veneto, piuttosto che in Lombardia, per le materie che diventano, in base al progetto, esclusiva competenza della Regione. Ad esempio, la scuola. Se lo Stato spende 100 per la scuola, la Regione trattiene 100 dal gettito fiscale del suo territorio.

Il problema nasce dopo. Negli anni successivi, infatti, la trattenuta della Regione viene calcolata in base al gettito fiscale che il territorio complessivamente produce. Mettiamo che il gettito, nel 2020, sia di mille euro, di cui 100 stornati alla Regione per la scuola. Nel 2021, il gettito complessivo sale a 1.100 euro. Lo storno per la scuola regionale sale a 110 euro. Di fatto, dunque, la Regione, più ricca, destina più risorse alla sua scuola. Ma le sottrae alle altre regioni. Salta il meccanismo di solidarietà su cui si basa l’unità del paese. Chi è più ricco, ha diritto a più servizi gratis. Di fatto, è come se un avvocato – che paga 40 mila euro di tasse l’anno – avesse diritto a 2 Tac gratuite in ospedale e un netturbino – siccome paga solo 20 mila euro di tasse – ad una soltanto, anche se la diagnosi è uguale per tutti e due. Nell’Italia che vogliono i leghisti, al netturbino basterà vivere a Vicenza, anziché a Sassari, per avere le 2 Tac gratis.

I “muri” di Zaia e Fontana

Nell’Italia che la Lega vuole realizzare, tuttavia, la secessione dei ricchi e l’inaridimento di una spesa pubblica sempre più asfittica non sarà l’unico problema di discriminazione del netturbino di Sassari. La distribuzione delle competenze a cui puntano Zaia e Fontana comporta anche la regionalizzazione, ad esempio, dei contratti di lavoro negli ambiti da cui lo Stato si è ritirato. Sarà dunque la Regione ad assumere e a pagare, ad esempio, maestri e professori. Decidendo il loro stipendio. Una insegnante in una scuola del centro di Rovigo potrà guadagnare più di una collega impegnata in quartieri di frontiera come Scampia a Napoli. E’ la balcanizzazione dell’impiego pubblico. Tutti a insegnare a Rovigo, allora? Non è detto. Niente sembrerebbe impedire a Zaia di inserire nel contratto - in nome, naturalmente, di una maggiore sintonia e omogeneità culturale con le scolaresche - il requisito di una nascita nella regione.

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
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