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[Il ritratto] La notte più lunga di Tria, il ministro ballerino che teme il caos sui mercati

Una telefonata e ha detto sì senza dimettersi, dopo aver tanto tuonato. Un trapezista perfetto. Ha messo insieme tutto, il diavolo e l’acqua santa. Persino il presidente della Repubblica e il governo del cambiamento. È la vittoria dei padroni del contratto

[Il ritratto] La notte più lunga di Tria, il ministro ballerino che teme il caos sui mercati

Alla fine più di Giovanni Tria si è piegato il presidente Sergio Mattarella che con una lunga telefonata lo avrebbe convinto a non rassegnare le dimissioni per nessuna ragione. Il timore degli osservatori e degli economisti, condiviso evidentemente dal Quirinale, è che l’uscita dal governo del titolare del Tesoro avrebbero portato il caos non solo a Palazzo Chigi e dintorni, ma anche e soprattutto sui mercati, che potrebbero reagire con scossoni imprevedibili alla perdita della guida economica del Paese. In realtà, la telefonata è stata fatta prima del Consiglio dei ministri che ha deciso di sforare la percentuale che fotografa il raèporto tra deficit e Pil, portandolo al 2,4 per cento per tre anni (2019, 2020, 2021). «Non temiamo lo spread, non temiamo i mercati», hanno esultato dai banchi dei Cinque Stelle. Dobbiamo tutti tifare perché abbiamo ragione loro. Se no corriamo tutti insieme verso il disastro. Che non ci conviene proprio. «Stiamo facendo del bene all’italia e agli italiani»,ha detto il premier Giuseppe Conte. Così il responsabile del Tesoro alla fine ha ceduto alla linea del Piave che lui stesso aveva indicato, ovvero l’1,9 dopo essere partito dall’1,6. Senza dimissioni. «Nessuno ha mai messo in discussione Tria», ha dichiarato poi il ministro per le infrastrutture Danilo Toninelli, che in quanto a frasi fuori controllo negli ultimi tempi ne ha già dispensata qualcuna di troppo. Una più una meno.

In realtà, Tria era stato minacciato pubblicamente sia dai Cinque Stelle che da Salvini, pure contro il parere di Giorgetti, che era rimasto l’unico a difendere il professore. Giovanni Tria come tutti i ministri dell’economia di questo nostro disastrato paese è l’uomo che deve far quadrare i conti, che è l’impresa da sempre più difficile per qualsiasi governo chiamato a governarci. Come se non bastasse, il povero Tria aveva pure promesso di far quadrare i sogni di questa combinazione parlamentare che ha alleato diversi e avversari, con programmi e ambizioni opposte. Flat tax, reddito di cittadinanza e abolizione della Fornero: lui ha già detto che ci sta studiando. Magari sarebbe stato più facile avesse potuto fare solo di testa sua. Ma in questa maggioranza gialloverde, ogni sua decisione ha dovuto essere condivisa con i padroni del contratto, che qualche divergenza d’opinione già avevano cominciato pure a mostrarla. Una bella fatica.

Giovanni Tria non è da sottovalutare

Sarebbe stato l’uomo perfetto per Winston Churchill che una volta disse che «se non sei di sinistra da giovane sei senza cuore, ma se non sei di destra da vecchio sei senza cervello». Poi che il premier inglese che portò l’Inghilterra a vincere la seconda guerra mondiale sia mai stato di sinistra a vent’anni non risulta a nessuno. Giovanni Tria, invece, lo fu davvero, come ha rivelato La Stampa, visto che negli Anni 60 e 70 militò in alcune organizzazioni di ispirazione maoista nella variegata galassia marxista leninista di quell’epoca andata, dove ci si perdeva tra sigle e padri putativi. Di quell’esperienza gli è rimasta la conoscenza della lingua cinese e un buon rapporto con le istituzioni di quel paese. Per il resto, come diceva Churchill, ha cominciato a usare il cervello. Da studioso, più che da politico.

Il fatto è che questo provetto ballerino di tango, come rivelato da alcuni suoi amici, si è dimostrato soprattutto un grande trapezista da quando s’è insediato nel Palazzo che fu di Quintino Sella. Nel suo primo discorso alla Camera, il ministro dell’Economia aveva fatto chiaramente intendere che era impossibile esaudire tutti i desideri dei due maggiori firmatari del contratto, non potendo reperire fondi per il taglio delle tasse e il reddito di cittadinanza. «Nell’interesse del Paese è intenzione del governo agore in modo di prevenire ogni aggravio per la finanza pubblica, con il primo impegno che sarà quello di ridurre il debito». Perché il calo del debito sarà «la condizione di forza per rivendicare una svolta decisiva che consenta di considerare la spesa per gli investimenti». Chiarissimo. Solo che nello stesso discorso subito dopo aveva tenuto a precisare che «il reddito di cittadinanza avrà un ruolo centrale». Beh, così è stato. Anche se all’inizio qualcuno l’aveva tradotto così: lo faremo, ma a suo tempo. Solo che i due supervicepremier non avevano aspettato neanche molto per ribattere che non ci sarà nessun rinvio per flat tax e reddito di cittadinanza. Anzi, oltre al decreto dignità, c’era già pronto un bel decretone a base di pace fiscale e avvio della flat tax, ovviamente solo per partite Iva forfettarie (traduzione: gli stipendi fissi che sono quelli che forniscono entrate sicure, si attaccano).

Che aveva fatto Tria?

Aveva fatto sapere che lui era d’accordo col governo, e che le sue decisioni sarebbero state comunque condivise. Faremo tutto, aveva avvertito, in fondo quelle misure potrebbero essere meno pesanti di quel che sembra. Se lo dice lui. Certo, queste promesse parevano abbastanza in contrasto con quello che aveva sostenuto appena qualche giorno prima quando aveva detto che «le sfide condizionate dalla particolare situazione economica dovranno essere affrontate nel segno della continuità con le politiche adottate in passato». Ma è un po’ la caratteristica peculiare di questi tempi: mari in burrasca, porti chiusi e venti forti, che ti tirano da una parte e dall’altra. In questo clima un po’ turbolento, lui ha dovuto già rinnegare qualcuna delle sue convinzioni. Perché Paolo Savona, il professore antieuro, non è stato solo colui che ha consigliato al laeder della Lega il nome di Tria per la poltrona del Tesoro. Gli consegnò pure un premio nel 2007 riempiendolo di elogi per un articolo in cui sosteneva come fosse opportuno spostare l’imposizione fiscale dalle imposte dirette a quelle indirette. Cioé, dall’Irpef all’Iva. Che è una posizione che aveva ribadito proprio poco tempo fa elogiando la flat tax salviniana: «Perché no? Magari partendo in modo progressivo e finanziandola facendo scattare le clausole di salvaguardia connesse all’aumento dell’Iva». Peccato che sia una condizione assolutamente vietata per i firmatari del contratto di governo, sospinti in quel ruolo proprio dall’esercito delle partite Iva.

Tria aveva quindi trovato altre strade, come aveva fatto per il reddito di cittadinanza, un provvedimento che forse dovrà essere affiancato dalla riorganizzazione dei centri per l’impiego, ossia gli uffici di collocamento, all’interno probabilmente di una revisione dell’intero quadro di ammortizzatori sociali, come la Cassa integrazione guadagni, in modo da abbassarne la previsione di spesa e quotarne il costo assieme ad altre riforme del sistema. Solo che tra una promessa e una retromarcia (tutt’e due in abbondanza), visto che non si può intervenire sull’Iva, la flat tax voluta dalla Lega, ossia l’introduzione di due sole aliquote al 15 e 20 per cento, è bell’e che saltata. Precedenza alla legge Fornero e al reddito di cittadinanza. La scelta più ancora di Tria l’aveva già fatta Salvini: alla sua scalata di voti servono molto di più le politiche anti immigrazione e i decreti sicurezza oltre all’abolizione della Fornero che la flat tax, ridotta a un contentino per le partite Iva.  In realtà, prima di arrivare al 2,4, continuando nella sua splendida fatica di equilibrista, Tria aveva già illustrato tagli per 33 miliardi di euro in tre anni, necessari per introdurre flat tax e reddito di cittadinanza. Per gli stipendi dei dipendenti pubblici si spenderanno, nel 2018, 171 miliardi di euro, che saranno abbassati negli anni seguenti: di sicuro meno assunzioni (per esempio nella scuola, dove hanno già cancellato il concorso di quest’autunno) e poi lasciamo fare alla vostra immaginazione.

Altro capitolo le pensioni (e pazienza se i vitalizi non si faranno mai): tra il 2018 e il 2021 la spesa aumenterà di 23 miliardi di euro, e allora mannaia sulle pensioni d’oro che diventeranno però sempre meno d’oro. Così, prometteva, cominceremo con la flat tax e reddito di cittadinanza. Cosa avrebbe fatto prima? Toglietevi dalla testa la flat tax per tutti: unica promessa mantenuta. Sarà solo per imprese e partite Iva. Poi, considerando l’impatto anche in termini di consensi avuto da Salvini per il suo no agli immigrati, probabilmente adesso toccherà a Di Maio. Quindi reddito di cittadinanza, che quando ancora non era nemmeno candidato a fare il ministro del Tesoro, Tria aveva definito «un improbabile sussidio», se non si specificavano le coperture. Ma sarebbe comunque un errore racchiudere Tria in quel giudizio. Perché è sempre stato un uomo di dialogo, innanzitutto, mai integralista nelle sue convinzioni. Come si è visto. Una telefonata e ha detto sì senza dimettersi, dopo aver tanto tuonato. Un trapezista perfetto. Ha messo insieme tutto, il diavolo e l’acqua santa. Persino il presidente della Repubblica e il governo del cambiamento. E pazienza se dentro non ci stanno le nostre povere tasche. Se poi ci bastoneranno i mercati, tanto non ci avrebbe salvato nessuno. neanche lui.

Pierangelo Sapegnodi Pierangelo Sapegno, editorialista   
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