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[Il ritratto] La dynasty dei Pittella, splendori e decadenza dei grandi notabili all'ombra di renzi. Da Potenza alla conquista dell’Europa

Nell’eterna Italia dalle due velocità, «la stirpe dei Pittellas», come li ha ferocemente definiti Alessandro Di Battista, non ha cambiato maniere e neppure secolo, anche senza più il suo fondatore. E Gianni non saprà l’inglese, ma come faceva suo padre da medico condotto nessuno è capace come lui a raccattare voti girando tutti i paesi tra una festa di compleanno e un matrimonio

[Il ritratto] La dynasty dei Pittella, splendori e decadenza dei grandi notabili all'ombra di renzi...

Come dice Gianni Pittella dei Pittella’s Family, vicepresidente del Consiglio Europeo e pure Senatore della Repubblica, nessuno nasce imparato conoscendo l’inglese da bambino. Ma siccome a Bruxelles serve, Brassèl come pronuncia lui, «I studin, anzi I’m studing, in vis time. Ci vuole l’umiltà di studiare. Alla mattina alle 8, mentre tutti gli altri dormono (???, ndr), io studio l’inglese. E l’estate la dedico a perfezionarlo». Adesso non stiamo a badare troppo ai risultati. Gianni Pittella, figlio di Domemico, fratello di Marcello, padre di Domenico, tanti Pittella tante carriere, potrebbe benissimo farne a meno. Come dimostrato dal capostipite, il medico chirurgo Domenico, morto pochi mesi fa, ad aprile, possono perseguitarlo, arrestarlo, condannarlo e mandarlo in prigione, che lui ne uscirà sempre più forte di prima, ossequiato rispettosamente da tutti, che si levino il cappello caro don Mimì. Portatore di voti e di interessi che procedono per continuità dinastica, Domenico ha fondato una casata che il pd renziano si è ben guardato dal rottamare, appoggiandone invece a spada tratta gli eredi: Gianni, europarlamentare da 18 anni e adesso catapultato al Senato per far posto alle prossime Europee al fratello Marcello, - scandali permettendo -, finora presidente della Regione, in attesa di farci entrare quest’autunno il nipote Domenico, 31 anni. Don Mimì protestava sempre che la sua non era una casta, «ma una risorsa della società lucana al servizio della sua terra. La mia famiglia è un impegno politico intergenerazionale». Peccato che chiunque capitasse da queste parti ci vedesse invece un potere molto capillare e clientelare, che ha radicato i propri centri nevralgici nella pubblica amministrazione, soprattutto comparto sanità, negli eterni lavori della Salerno Reggio Calabria, nei piccoli cantieri e nella creazione di progetti per l’inevitabile sperpero di denaro pubblico.

Anche adesso che un ordine di cattura è piombato sulla testa di Marcello, presidente della Regione Basilicata, spedendolo agli arresti domiciliari per l’inchiesta sulla Sanità, mica solo nella piazza di Lauria, la loro città, senti ripetere che si tratta di un equivoco assurdo e di un errore madornale. Ma c’è qualcosa di surreale in tutta questa storia così emblematica che viene proprio da questa cittadina, Lauria, incrocio di confine tra Basilicata e Calabria, nel Sud del Sud, che il capostipite don Mimì attraversava da medico negli anni di Pane amore e fantasia, «a piedi, o a cavallo, o sull’asino, per bozze di strade rattoppate da qualche agricoltore». La Basilicata era la regione più povera del Mezzogiorno, spopolata dall’onda lunga dell’immigrazione, ma anche quella più dignitosa, senza mafie e camorra a governarle, con un antico senso di solidarietà quasi ottocentesco. Domenico visitava i suoi malati e a quelli più poveri regalava le mnedicine. E i contadini nelle contrade di Lauria, a fianco dell’immaginetta del beato Domenico Lentini e dei santini, tenevano quella di don Mimì. Così quando si butta in politica, nel psi craxiano, ha la strada spianata. Entra in Parlamento nel 72 e ci resta per 3 legislature fino a quando non viene estromesso dai socialisti.

Pittella aveva aperto la sua clinica privata

Nel frattempo, Pittella aveva aperto la sua clinica privata e non era più il medico del paese. Nel 1981 in quella clinica curò la brigatista Natalia Ligas, ferita a una gamba dopo un conflitto a fuoco. Accusato di associazione sovversiva e partecipazione a banda armata, è sospettato persino di aver ordito con le Br un piano per rapire Ferdinando Schettini. Viene arrestato, condannato a 12 mentre è in libertà provvisoria. Scappa in Francia e si consegna nel ‘99. Il debito con la giustizia è ridotto di un terzo per la grazia parciasle concessa da Carlo Azeglio Ciampi e già nel 2002 ottiene l’affidamento ai servizi sociali. Ma al di là di questa vicenda, è molto più emblematico quelloche è successo prima della condanna definitiva, quando don Mimì, cacciato dai socialisti, ha fondato prima la Lega italiana assieme a Licio Gelli e Vito Ciancimino, e poi si è candidata nella Lega delle Leghe, una lista costruita con Stefano Delle Chiaie, vicina al Msi, prendendo il 12,6 per cento dei voti. Dovunque andasse rimaneva un grande portatore di voti. Così, finita la buriana, è tornato nel centrosinistra come se niente fosse lanciando i propri figli sulle sue orme. La politica in casa Pittella è un diritto acquisito, perché rappresentano una casata, il familismo, il potere che si tramanda. Il capostipite è rimasto sempre in cima alla piramide, assolutamente intoccabile per il Grande Rottamatore, che ha imposto Gianni al Senato nelle liste pd, guarda caso proprio come voleva lui, dopo aver firmato il «Patto di ghiaccio» con la famiglia.

La sua parola era ancora Vangelo

Don Mimì condizionava tutti con i suoi consigli. In pochi osavano contraddirlo. Ha lasciato anche un libro per i posteri, il suo testamento politico: «Una vita per il socialismo umanitario». E nessuno gli ha mai chiesto cosa c’entrassero Natalia Ligas e Dalle Chiaie e Licio Gelli con il socialismo umanitario. Ma questa non è una storia così semplice da capire. Don Mimì era un capostipite che ha governato gli intrecci di potere attraverso la famiglia, seminando favori e prebende con parole e modi da vecchio notabile ottocentesco. Secondo Sabino Cassese una delle chiavi dell’autodistruzione del pd sta proprio nel fatto che il partito ha finito per infilarsi nel cul de sac del micronotabilato: soprattutto al Sud è caduto in mano ai capibastone, avviando di pari passo un processo di frammentazione interna che non ha precedenti nella storia democristiana e tantomeno comunista. Nell’eterna Italia dalle due velocità, «la stirpe dei Pittellas», come li ha ferocemente definiti Alessandro Di Battista, non ha cambiato maniere e neppure secolo, anche senza più il suo fondatore. E Gianni non saprà l’inglese, ma come faceva suo padre da medico condotto nessuno è capace come lui a raccattare voti girando tutti i paesi tra una festa di compleanno e un matrimonio. Non ci sono ancora i suoi santini appesi nelle case di campagna vicino alla Madonna. Ma magari prima o poi capiterà anche, in questo luogo e in questa storia senza tempo.

Pierangelo Sapegnodi Pierangelo Sapegno, editorialista   
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