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Non chiamatelo ristagno, in Italia boom di disoccupati, precari e aziende in crisi

I dati sull'intero 2019 sono tutt'altro che brillanti, ma, fra novembre e gennaio, la situazione che fotografano le statistiche mensili sul fatturato e sull'occupazione si è di colpo incupita

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
Non chiamatelo ristagno, in Italia boom di disoccupati, precari e aziende in crisi

Boom della cassa integrazione, più disoccupati, più precari, più aziende in crisi e più posti di lavoro a rischio. Forse, non basta parlare soltanto di ristagno. A cavallo della fine dell'anno, l'economia italiana ha virato decisamente al brutto. I dati sull'intero 2019 sono tutt'altro che brillanti, ma, fra novembre e gennaio, la situazione che fotografano le statistiche mensili sul fatturato e sull'occupazione si è di colpo incupita. Il coronavirus e l'epidemia cinese, purtroppo, non c'entrano: è ancora troppo presto per registrare gli effetti della paralisi in cui è caduto un gigante dell'economia globale come la Cina. Ma effetti ci saranno e saranno, probabilmente, pesanti. Il punto che emerge dagli ultimi dati congiunturali  è che questi effetti rischiano di abbattersi su una economia già più fragile di quanto messo in preventivo.

Il 2019 ha visto presentare più di 2 milioni di domande per il sussidio di disoccupazione, mai così tante in questi ultimi anni. Ad allarmare è soprattutto il fatto che sembra cominciare a girare a vuoto il meccanismo di sistemazione dei tanti lavoratori condannati al precariato. In effetti, nel corso di tutto il 2019, il numero di contratti a posto fisso è aumentato: ne sono stati siglati 365 mila in più. Un risultato oscurato, però, dallo scivolone di dicembre: nell'ultimo mese del 2019, infatti, le assunzioni a tempo indeterminato sono bruscamente scese: 75 mila in meno. E' il primo calo dopo mesi di crescita. E coincide con l'aprirsi di crepe sempre più vistose nel tessuto produttivo del paese.

Lo rivela il termometro della cassa integrazione straordinaria, la procedura salva stipendi che viene messa in atto, quando le aziende vanno in crisi non per temporanee difficoltà congiunturali, ma perché asfissiate da mancanza di prospettive. A gennaio scorso, è stata autorizzata l'integrazione salariale per quasi 12 milioni di ore di lavoro. E' l'equivalente di 75 mila lavoratori messi fuori dal ciclo produttivo, metà dei quali nel Mezzogiorno. L'aumento delle ore, contenuto al Nord, è infatti del 40 per cento nell'Italia centrale, ma, rispetto ad un anno fa, del 133 per cento al Sud. Il senso di un orizzonte che si oscura lo dà il confronto con l'inizio del 2019: le ore di Cig sono aumentate del 52 per cento. Ma è la traiettoria che spaventa: rispetto a dicembre scorso, infatti, l'aumento è del 57 per cento. Senza esagerare l'importanza di un indicatore molto volatile come la cassa integrazione, l'impressione è di uno scivolone improvviso, che ci ha riportato di colpo indietro.

A dare corpo a questi numeri c'è l'ingolfarsi, in un interminabile girare a vuoto, dei tentativi di arginare le crisi all'origine delle richieste di Cig. Ormai, al ministero dello Sviluppo, ci sono ben 160 tavoli di negoziato, per altrettante emergenze aziendali. I lavoratori coinvolti sono oltre 200 mila. Di questi, almeno 60 mila rischiano la chiusura dell'azienda in cui lavoravano o, comunque, di perdere il posto per un drastico ridimensionamento degli organici. La mappa delle singole crisi disegna un panorama inquietante, perché l'emergenza attraversa sia l'industria che il commercio e perché a barcollare sono interi settori. Dell'Ilva si parla da tempo, ma la siderurgia è anche la crisi della Sideralloys in Sardegna. E ci sono anche la componentistica per auto – un settore che vale il 5 per cento delle nostre esportazioni -gli elettrodomestici, come la Whirlpool a Napoli, la chimica, il trasporto aereo, da Alitalia a Air Italy. E la grande distribuzione commerciale, dove Conad ha iniziato l'altro ieri, licenziando quasi mille impiegati, il ridimensionamento degli organici di Auchan, previsto al momento dell'acquisizione. E' solo un primo passo, infatti: quando dagli uffici si passerà al personale di vendita, salteranno, probabilmente, altri 2 mila posti di lavoro.

Tutte queste crisi vanno lette sullo sfondo di un'economia che perde colpi. L'ultimo trimestre del 2019 ha visto il fatturato dell'industria scendere dello 0,6 per cento rispetto all'estate. Anche qui, c'è un brusco peggioramento in coda: a dicembre – molto prima, dunque, dell'epidemia cinese – le vendite dell'industria sono crollate del 3 per cento rispetto ai risultati di novembre. A questo punto, nessuno crede più che l'obiettivo di crescita ipotizzato, lo scorso autunno, per il 2020 – lo 0,6 per cento sul 2019 – sia lontanamente raggiungibile. E' una ammissione penosamente recente. Ancora a dicembre, gli economisti della Banca d'Italia proiettavano una crescita dello 0,5 per cento, comunque superiore ai grigi risultati del 2019. Oggi, a livello ufficiale, si parla dello 0,3 per cento. L'Ufficio parlamentare del Bilancio, nelle sue previsioni, ha scritto 0,2 per cento. In buona sostanza, inchiodati alla stessa paralisi del 2019.

Anzi, peggio. Perché il rallentamento di fine 2019 si ripercuote sull'andamento del 2020, che parte, dunque, avverte l'Istat, con un handicap dello 0,2 per cento. Vuol dire che, quest'anno, bisogna recuperare crescita per due decimali, solo per arrivare almeno ad uno sviluppo zero. Che è, più o meno, quello che ci assegnano gli analisti dei grandi fondi di investimento internazionali, una volta presi in carico gli effetti presunti del coronavirus.

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
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