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[La storia] Gli abiti come la musica: ecco le Spotify dei vestiti a noleggio

Il servizio sta letteralmente esplodendo in alcune delle più innovative e moderne metropoli del mondo e c’è chi addirittura scommette che non smetteremo solamente di comprare dischi, libri e automobili ma addirittura abiti e accessori

Michael Pontrellidi Michael Pontrelli   
[La storia] Gli abiti come la musica: ecco le Spotify dei vestiti a noleggio

Jeremy Rifkin lo ha previsto nel 2000 nel suo libro, l’Era dell’accesso: con il passare del tempo l’acquisto e il possesso dei beni sarà sostituito dal noleggio, ovvero dall’accesso alla disponibilità. Ormai è evidente a tutti che la profezia del noto economista americano si sta avverando. Con l’avvento di piattaforme come Spotify la musica non si acquista più ma si ascolta in streaming (accedendo ad un catalogo praticamente illimitato) pagando un canone mensile o addirittura gratuitamente. Lo stesso si può fare con i libri e con i film. Sempre a fronte di un costo fisso mensile Kindle Unlimited di Amazon dà la possibilità di leggere un numero sterminato di pubblicazioni editoriali, Netflix di poter scegliere tra centinaia di film e serie tv. E queste citate sono solo le piattaforme più note al grande pubblico. 

Dal car sharing al clothes sharing 

La prima ondata dell’era dell’accesso ha colpito i beni digitalizzabili come musica, libri e film. Ma il fenomeno si è esteso ormai anche ai beni fisici. Il car sharing, ovvero la possibilità di noleggiare un automobile per singoli spostamenti, è ormai un servizio disponibile nella maggior parte delle città italiane. L’ultima frontiera è quella del noleggio di vestiti. Il servizio sta letteralmente esplodendo in alcune delle più innovative e moderne metropoli del mondo e analogamente a quanto accaduto negli altri settori non tarderà a diffondersi a macchia d’olio. C’è chi addirittura scommette che non smetteremo solamente di comprare dischi, libri e automobili ma addirittura abiti e accessori.

Tutto ruota attorno al web 

A New York si trova Rent the Runway, la pioniera del fenomeno, attiva fin dal 2009. A Milano DressYouCan. Il web è ovviamente la piattaforma base per accedere al servizio. E’ possibile esplorare il catalogo, scegliere i capi o gli accessori da indossare e prenotarli per una certa data. L’azienda si occupa di tutto il resto: consegna, ritiro e tintoria. Grazie a servizi di sartoria personalizzata è possibile (sempre online) chiedere modifiche ed orli temporanei agli indumenti. L’unica fatica del consumatore è indossare l’abito e ovviamente pagare. Perché a differenza di Spotify l’accesso al catalogo dei vestiti non è gratuito. I prezzi dipendono ovviamente dal capo selezionato. Per un paio di scarpe di lusso, con un prezzo in negozio di 400 euro, si pagano poco più di 40 euro (circa il 12-15% del prezzo di acquisto).

Dai capi di lusso a quelli di uso quotidiano 

Come facilmente immaginabile le piattaforme di clothes sharing hanno esordito noleggiando capi di lusso dal prezzo di acquisto elevato, che dunque possono giustificare il noleggio. Ma questo è solo il primo passo. L’obiettivo (non nascosto) di tanti operatori è quello di estendere la pratica anche ai capi di abbigliamento di uso quotidiano. “Puntiamo a mettere fuori mercato H&M e Zara” ha dichiarato Jennifer Hyman, cofounder e amministratore delegato di Rent the Runway. “Quando il sistema avrà preso piede, il budget medio di quel che si spende per vestirsi potrebbe dimezzarsi” le ha fatto eco la fondatrice di Girl Meets Dress di Londra.

Nuove formule commerciali 

Per conquistare il mercato si punta a formule commerciali innovative. Non più il costo per l’utilizzo di un singolo capo di abbigliamento ma il canone mensile per il noleggio di un numero limitato o addirittura illimitato di vestiti, a seconda del piano commerciale scelto.  Nei prossimi decenni indossare più di una volta lo stesso paio di pantaloni o di scarpe potrebbe diventare, dunque, una pratica desueta di un lontano passato. Ma sarà davvero così?

 

 

 

 

 

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