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Fitto sarà il Commissario Ue. Ma Meloni sfida Ursula sulle deleghe. E L’Italia diventa meno affidabile

Oggi parte la lettera per la Commissione con l’indicazione del Commissario. Manca la doppia opzione di genere. Via libera del Partito Popolare a Fitto. Ma la premier vuole ampie deleghe per l’Italia. Al pari di Francia e Germania. Finiscono i due anni di effetto Draghi

Claudia Fusanidi Claudia Fusani   
Fitto sarà il Commissario Ue. Ma Meloni sfida Ursula sulle deleghe. E L’Italia diventa meno affidabile

Manfred Weber è stato molto chiaro nell’intervista al Corriere della sera: “All’Italia spetta un urlo forte nel nuovo governo europeo”. Weber è il presidente del Ppe, la grande famiglia dei popolari europei che sono i veri vincitori delle elezioni di giugno e coloro che ancora una volta daranno le carte a Bruxelles. Weber è un po’ la Giorgia Meloni europea, uno l’azionista di maggioranza a Bruxelles, l’altra in Italia. Si spiega così il lungo colloquio mercoledì a palazzo Chigi prima tra Weber e il ministro Raffaele Fitto e poi con la premier, più di un’ora per ciascuno. Poi via in auto dall’uscita sul retro senza incontrare i giornalisti. E’ stato il vicepremier Tajani, che del Ppe è il vicepresidente da ben 22 anni, ad organizzare l’incontro. Da sempre Tajani tesse la tela per stringere un’alleanza strategica tra Popolari e Conservatori (Ecr, la famiglia europea di cui Meloni è presidente) ma l’avanzata delle destre a giugno e il no di Giorgia al von der Leyen 2 non solo ha fatto saltare quel tavolo ma ha anche messo in crisi l’asse interno tra Forza Italia e i Fratelli. Crisi che nei mesi estivi ha conosciuti vari momenti di scontro, dalla cittadinanza all’autonomia.

I sospetti di Bruxelles

Il punto è che adesso questa crisi rischia di trasferirsi anche a livello europeo. Nonostante le parole rassicuranti ma non chiarificatrici di Weber. Entro oggi palazzo Chigi invierà a von der Leyen la lettera con il nome del Commissario prescelto da Roma: è Raffaele Fitto, su questo non ci sono più dubbi e il lungo faccia a faccia di mercoledì ha allontanato ogni dubbio. “Fitto è un mio ottimo amico - ha detto Weber - un forte difensore degli interessi dell’Italia, persona responsabile e molto preparata”. A lungo in Forza Italia, i due si sono conosciuti e apprezzati negli anni di Bruxelles in cui Fitto è stato commissario. Sulla scelta del nome von der Leyen non potrà recriminare. Resterà un po’ di amarezza per la mancanza della candidata donna, ma molti paesi non l’hanno indicato. I nodi erano e restano altri, nonostante la rassicurazioni di Weber. C’è il problema delle deleghe: Meloni vuole che Fitto segua da Bruxelles i dossier più strategici per l’Italia, il Pnrr e i fondi di coesione, e il bilancio. Ma soprattutto vuole una vicepresidenza esecutiva della Commissione. Vuole che la maggioranza politica in Italia - Fratelli d’Italia che ha eletto a Bruxelles 24 dei 78 eurodeputati dei Conservatori - pesi tanto quanto Socialisti e Liberali, Macron e Scholz, che hanno opzionato due dei quattro top jobs europei, il presidente del Consiglio europeo (il socialista Costa) e l’Alto commissario per gli affari europei (la liberale estone Kaja Kallas). Per Meloni è una questione di principio. Ma su questo neppure Weber ha potuto dare garanzie. Perchè il governo Meloni è, purtroppo, diventato un sorvegliato speciale a Bruxelles. “Serio, credibile, responsabile” dice Weber. Ma non è questo il feeling a palazzo Berlaymont, sede della Commissione.

Tutto è cambiato dopo il 9 giugno

E’ successo tutto tra giugno e luglio quando, sull’onda dell’avanzata poi respinta delle destre e con il dilagare del candidato Trump, Meloni ha fatto scelte di campo nette a cominciare da quella di non votare il bis dell’”amica” von der Leyen accusata di averla esclusa dalle consultazioni per i top jobs e spostandosi sempre di più sul fronte antieuropeo, pro Putin e anti Nato dell’amico Orban. In quei due mesi è come se si fosse dissolto per sempre l’effetto Draghi. Nei primi due anni di governo Meloni ha beneficiato non solo degli effetti positivi delle misure adottate dal suo predecessore ma ha anche scelto un approccio molto pragmatico nei confronti dell’Unione. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) era già stato impostato, è stato modificato in modo marginale e Fitto ne è stato un attento interprete ed esecutore. Nelle leggi di Bilancio il ministro Giorgetti è stato fedele interprete del rigore e ha fatto ciò che Draghi, alla guida di un governo di unità nazionale, non potette fare: abolire il superbonus edilizio del 110%. Draghi aveva consigliato ai leader dell'Ue di non emarginare l’Italia e di avere fiducia in quella leader che viene dalla destra. Lo stesso consiglio era stato offerto alla premier. Così è stato: due anni all’insegna del pragmatismo e non dell’ideologia. Il von der Leyen 1 ha seguito e condiviso le scelte sull’immigrazione ed è stato accondiscendete su altri dossier scottanti come la finalizzazione della vendita della compagnia aerea ITA a Lufthansa e la procedura di infrazione sulle concessioni balneari. Meloni è stata fedele interprete dell’atlantismo di Draghi al fianco di Kiev.

Governo italiano sempre più a destra

Ma tutto sembra essere cambiato dopo il 9 giugno, appunto. Non solo per il voltafaccia al bis di von der Leyen e il voto contrario a Costa e Kallas (Orban si è limitato all’astensione). Meloni ha rifiutato di ottemperare all'impegno assunto dall'Italia di ratificare il nuovo trattato sul Meccanismo europeo di stabilità (Mes), un passo considerato indispensabile per completare l'unione bancaria nella zona euro. Dentro al Consiglio, l’Italia sotto Meloni ha moltiplicato i voti contrari su regolamenti e direttive su cui gli altri governi avevano raggiunto un accordo. Roma ha abbandonato le coalizioni europee per difendere i diritti LGBT o l’aborto, allineandosi sempre più spesso all'Ungheria di Orban. Gli uffici di funzionari e diplomatici a Bruxelles hanno messo in fila “certe derive”, c’è chi teme nuovi istinti eurofobi. In politica estera non è più solo Salvini a preoccupare. Il ministro della Difesa Guido Crosetto, convinto atlantista, si è lasciato andare a commenti “poco comprensibili” sull’offensiva ucraina a Kursk per cui “il conflitto diventa ancor più duro” e allontana “sempre di più la possibilità di un cessate il fuoco”. Parole in netto contrasto con il via libera che nella stesse ore Bruxelles aveva dato all’operazione Kursk. Anche i continui distinguo di Tajani (“non siamo in guerra con la Russia”, “le nostre armi solo per uso difensivo”) sono risuonate un po’ troppo cerchio bottiste. Persino un europeista convinto come il ministro economico Giorgetti ha dato da pensare negli ultimi giorni: ha criticato le nuove regole del Patto di stabilità e crescita perché costringono i governi a “fare valutazioni di breve e di corto respiro” e ha paragonato i progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza "ai piani quinquennali sovietici”. Che succede, quindi, al governo Meloni? Che fine ha fatto il suo “pragmatismo”?

Non tutte le partite contengono delle sfide. In questo settembre Meloni deve giocare invece tante partite e altrettante sfide. Diciamo che è lei stessa a mettere tutto sul piano della sfida: le deleghe europee; il ruolo dell’Italia; la legge di bilancio. C’è sempre un aut aut. Agisce come se comandasse. Ma è un bluff.

Claudia Fusanidi Claudia Fusani   
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