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Draghi non ha detto che non vuole andare al Quirinale, tradotto: ci vuole andare. E ora?

La tradizionale conferenza stampa di fine anno tra il presidente del Consiglio e i giornalisti ha dato una chiara indicazione

Ettore Maria Colombodi Ettore Maria Colombo   
Draghi non ha detto che non vuole andare al Quirinale, tradotto: ci vuole andare. E ora?
Foto Ansa

Draghi dixit: simul stabul, simul cadent (la mia corsa al Colle e il mio governo). E ora? Quello che ci si aspettava è arrivato. Mario Draghi non ha detto che non vuole andare al Quirinale. Traduzione: ci vuole andare, potendo. La tradizionale conferenza stampa di fine anno tra il presidente del Consiglio e i giornalisti ha dato una chiara indicazione: io ci sono, ha detto il premier, ma siete voi partiti a dover decidere cosa farò, con tutto quel che seguirà le vostre scelte, a cominciare dalla prosecuzione del governo in carica. Il sillogismo aristotelico del premier è assai stringente: se i partiti di questa maggioranza non sono in grado di eleggere un Capo dello Stato come pensano, poi, di garantire la stabilità necessaria, e dunque i loro voti, al mio esecutivo? Insomma, Draghi fa trasparire un simul stabunt, simul cadent che, però, ricorda una piramide rovesciata: se non siete capaci di farmi presidente (della Repubblica), non resterò a farvi da premier (e a farmi logorare). Non si trattasse di Draghi, c’è chi parlerebbe di ‘ricatto’, ma non è il caso.

E’ poi banale dire che il premier attenda le mosse dei leader politici, sono settimane che forse da Palazzo Chigi (e dal Quirinale perché no) si aspettano di vedere un passo dalla politica, una iniziativa da un lato per porre freno ad una corsa cominciata troppo presto (con eventuali problemi per l'esecutivo, che già si sentono tutti) e dall'altro per far capire (anche se impropriamente, dato che, per il Colle, non è prevista una gara elettorale nazionale né tantomeno una elezione diretta) un nome per il Quirinale. Certo è che, da oggi, i vari Salvini, Letta, Berlusconi, Renzi, Speranza, Conte, e perché no Meloni (non a caso, ieri, nessun leader ha detto ‘ah’, sul Colle) non saranno più costretti a guardare e commentare da fuori, con battute e tweet, ma a partecipare attivamente, senza giochi e strategia estreme, alla grande gara in corso. Un ‘grande gioco’ che, però, rischia di logorare loro, non solo il premier, e farli finire tutti nell’angolo.

I partiti, finora, hanno fatto ‘letteratura’. Ora, invece, tocca a loro prendere le redini del gioco. Sicuramente, da oggi in poi, tutte le riunioni politiche, gli appuntamenti organizzati e annunciati - in anticipo a quell'esposizione a 360 gradi di Draghi e della sua visione politica, compresa la indiretta disponibilità per il Quirinale - e svolti anche oggi tra i leader del centrodestra, gli ammiccamenti di Letta con Giorgia Meloni, leader unico di opposizione, gli annunci di riunioni del Pd per il 14 gennaio si calano, da oggi in poi, in quadro molto chiaro: Draghi ha lanciato il suo segnale, sollecitando i partiti a non traccheggiare e facendo e favorendo giochi di strategia, come una volta. Ma devono, è quello che evidentemente ha chiesto con forza il premier, garantire assunzione di responsabilità. Che non significa, forse, una azione diretta nei confronti della sua persona, ma sicuramente verso il Paese, verso i cittadini drammaticamente provati (sanitariamente, economicamente, socialmente) dal Covid. Draghi dice ai partiti: “ora tocca a voi, datevi una mossa, decidete”.

Ma se, fino a oggi, i partiti e i leader intervenuti sul tema del Colle, prescindendo dalla ‘variabile Draghi’, hanno fatto solo ‘letteratura’, accademia, da ora in poi, tutti i dialoghi e le interlocuzioni tra Salvini e Letta, i principali e identificati leader politici, le posizioni assunte da Conte (sempre che l'insieme di M5S e Di Maio glielo permettano) e Renzi (da capire comunque il suo peso e a patto che la sua capacità di intervenire nelle dinamiche politiche sia la stessa di qualche anno fa), e ancora la figura di Berlusconi (con la sua voglia di ‘spaccare tutto’ e ‘dare l’assalto al Cielo’, portare a suo favore la salita al Colle) iniziano ad assumere un quadro dinamico. Quasi che ci si aspetti una ulteriore (un rilancio forse) ‘dichiarazione’ di Draghi, con pronti tutti a discutere della formalizzazione (anche attraverso le battute sull'essere nonno, è evidente) della ‘candidatura’ dell'ex governatore della Bce.

Draghi, dunque, ha mandato la palla nel campo della politica chiedendo che, di fatto, essa si esprimesse su di lui, ma nello stesso tempo ha obbligato i partiti a scegliere, quale che sia il nome più nelle loro corde o nei loro desiderata. Ancora, Draghi ha costretto i partiti a scegliere su cosa fare del governo (crisi? nuovo esecutivo? elezioni anticipate?) e ovviamente del Quirinale, invitandoli a non considerare l'elezione del nuovo presidente della Repubblica un risiko ininfluente, un mero spostamento di pedine sulle spalle degli italiani. Le feste natalizie sono arrivate, la ‘moratoria’ chiesta da Enrico Letta può essere, definitivamente, seppellita, ora il gioco si fa duro. Ergo, bisogna vedere se ci sono ‘duri’ in campo...

La domanda è una sola: cosa si rischia di più? I vertici, improduttivi, delle due coalizioni. Si rischia di più con Draghi al Quirinale o con Draghi costretto a rimanere a Palazzo Chigi? Il dubbio serpeggia fra i parlamentari di ogni schieramento, all'indomani della conferenza stampa. Le parole di Draghi hanno ricevuto il plauso convinto del Pd e quello, un po’ meno convinto, del M5s che, all’apprezzamento ha aggiunto il ‘ma’ della necessità di garantire continuità nell'azione di governo. Va anche detto che l’incontro di martedì scorso tra Enrico Letta, Giuseppe Conte e Roberto Speranza è stato del tutto “metodologico” assicura una fonte parlamentare di Leu spiegando che il “patto di consultazione” fra i tre leader politici ha l'obiettivo di “muoversi in sintonia” nella partita del Quirinale, “ma di formale non c’è nulla”, si aggiunge. Del resto, anche il vertice del centrodestra, da questo punto di vista, è stato ‘inutile’. Al netto del ‘giuramento di fedeltà’ tra gli alleati (Salvini e Meloni hanno assai ‘rassicurato’ Berlusconi, da questo punto di vista, il quale però non si fida, e fa pure bene a non fidarsi), i tre leader si sono ‘riaggiornati’ a dopo le Festività, quindi all’anno nuovo. In mezzo, arriverà l’approvazione definitiva della legge di Bilancio (i deputati dovranno fare, per la loro gioia, gli straordinari: la Camera è convocata, per la seconda lettura della manovra, tra il 28 e il 30 dicembre e, dopo l’approvazione, già lampo, del Senato non sarà più di un ‘prendere o lasciare’) e il discorso di Capodanno di Sergio Mattarella, il suo ultimo, che delle ‘indicazioni’, sul suo lascito, le darà eccome. Certo è che il ‘piano B’, nel senso di Berlusconi, non è l’unico, dentro il centrodestra: Salvini e Meloni, soprattutto, pensano pure ai piani C (Casellati), P (Pera) e M (Moratti). Insomma, hanno e avanzano delle subordinate, mentre Berlusconi conosce solo la ‘principale’, cioè il ‘piano B’ che è, appunto, il suo.

Berlusconi, come Draghi, formalmente ‘non’ si candida, ma praticamente lo ha fatto di nuovo. Il vertice di centrodestra, in ogni caso, si conclude con l'impegno a rimanere compatti, per ora sul nome di Silvio Berlusconi che “non si è candidato ma si è candidato”, come ironizza uno dei partecipanti. Nulla di più, perché tutto è stato rinviato all'inizio dell'anno, come confermato dallo stesso ex premier: “Abbiamo rimandato ogni decisione a dopo Natale, ai primi dell'anno”. La road map di avvicinamento all'elezione del nuovo capo dello Stato del centrodestra ha, per ora, solo due appuntamenti: dopo Natale una riunione dei responsabili enti locali per coordinarsi sull'elezione dei delegati regionali, poi un nuovo vertice dei leader il 10-12 gennaio. Tutti presenti, non solo Berlusconi (anfitrione di casa, a villa Grande, sull’Appia, Meloni, Salvini) ma anche i ‘tre amigos’ delle forze minori (Noi con l’Italia di Lupi, Coraggio Italia di Toti, l’Udc di Cesa), che saranno anche piccoli, ma hanno i loro gruppi e sottogruppi e, insomma, votano eccome, pure loro, in mezzo ai Grandi elettori…

Ieri si è ragionato sulla mossa di Mario Draghi, con la disponibilità al ‘trasloco’ al Quirinale “e anche con la indisponibilità - chiosano dal centrodestra - a rimanere (al governo, ndr.) se la maggioranza si spacca”. Parole assai pesanti. E si è rimasti sull'idea di far valere i numeri del centrodestra, garantendo compattezza “in tutti i passaggi”, fino alle prossime politiche come recita la nota della coalizione che si sente “maggioranza naturale del Paese”. Che poi la compattezza della compattezza sarà sul nome dell'ex premier, è da vedere: uno dei partecipanti assicura che Berlusconi “nella testa ha veramente la convinzione di vincere. E mai scommettergli contro…”. A maggior ragione se la pandemia dovesse mostrare una recrudescenza: “Un motivo in più per mantenere la stabilità del quadro politico”. Il che è pure una bella contraddizione: se fosse, infatti, il centrodestra a far mancare i voti per eleggere Draghi e, di conseguenza, a far cadere il governo, la responsabilità sarebbe la sua.

E tuttavia le difficoltà della partita sono evidenti. Tanto che da Fratelli d'Italia la mettono così: “La candidatura del centrodestra, qualunque essa sia, ci vedrà compatti”. Dove l’accento cade, è ovvio, su quel ‘qualunque essa sia’ che vuol dire che ci sono altri nomi, oltre a Berlusconi. Nella Lega, soprattutto nell'ala più governativa, si ragiona invece sempre sulla possibilità di ritrovare un accordo complessivo che consenta di proseguire il lavoro del governo – e rinviare le elezioni - nonostante la salita di Draghi al Colle.

Il governatore leghista del Veneto, Luca Zaia, ospite in tv osserva: “Draghi al governo sta facendo un ottimo lavoro, per lo standing internazionale che sta dando al nostro Paese. Dopodiché, se deciderà di candidarsi dovrà avere la garanzia di essere eletto al primo scrutinio, visto che la maggioranza che lo sostiene è in grado di eleggerlo e se così non fosse si rischierebbe un corto circuito”. Garanzie che si potrebbero avere - ribadisce un parlamentare leghista - nel caso in cui i leader trovassero un accordo sul governo che succederà a quello di Draghi: “Difficilmente basterà promuovere un ministro a fare il premier... Sarebbe meglio un nuovo governo, con ministri più autorevoli di alcuni che oggi si stanno rivelando non proprio all'altezza”. E pure qui casca l’asino: se, infatti, già almanaccare ora sul governo attuale che prosegue la sua opera, pur se con un altro premier, è ‘tanta roba’, figurarsi un altro governo.

Il punto, semmai, è capire se ci sono i presupposti perché si realizzino quelle condizioni che, a citarle oggi una per una, sembra impossibile tenere insieme. La prima è data per realizzata: all'attuale premier piacerebbe fare il Capo dello Stato. A scandagliare fonti parlamentari di Pd, M5s e Articolo 1 le parole pronunciate da Draghi nella conferenza di fine anno non lasciano più spazi a dubbi.

La seconda condizione, tuttavia, rappresenta già una incognita: con quale maggioranza di governo, dopo? Il timore di molti parlamentari è che, con Draghi al Quirinale, non si trovi una maggioranza come quella di oggi attorno a un nome che possa sostituirlo e, di conseguenza, si scivoli rapidamente a elezioni. Il segretario del Pd ripete da mesi che prima dei nomi, viene il metodo. Un concetto ribadito all'AGI anche dal responsabile Sicurezza del partito, Enrico Borghi, che milita in Br (Base riformista), ma che è diventato un vero e proprio ‘ventriloquo’ del segretario Letta: “E' importante che la maggioranza di governo abbia la capacità di dialogare per giungere a una sintesi su un metodo, con l'obiettivo di convergere il prima possibile attorno a un nome il più autorevole e condiviso possibile”. “Questo significa anche – continua - assicurare la prosecuzione di questa esperienza di governo”. Prima di tutto, però, è “necessario definire un quadro politico”. Ovvero: “La maggioranza di governo deve arrivare fino al 2023”. Segue il metodo: “Capire se vogliamo arrivare davvero a una soluzione che stia bene a tutte le forze politiche”. Solo a quel punto, per Borghi, si possono tirare fuori i nomi. Il metodo e il quadro politico, dunque, è la linea tracciata dall’ex diccì Borghi che però si muove, da ex militante di Forze Nuove di Donat Cattin, come esistesse ancora la Dc e la centralità dei partiti di allora. Per definirlo e assicurare al Paese la continuità di questa esperienza di governo, anche con Draghi al Quirinale, sarà necessario coinvolgere l'attuale premier. Più che necessario: “Imprescindibile”, dice Borghi. Il che, però, se si facesse, ci porterebbe in quel semi-presidenzialismo ‘di fatto’ tanto caro a Giorgetti, con il Capo dello Stato che manovra, dentro il Parlamento e sui partiti, per dotarsi di un governo ‘compiacente’ e ‘suddito’. Neppure Luigi Einaudi, che pure tentò l’esperimento del ‘governo del Presidente, con Pella, arrivò a tanto.

Non che, nel centrosinistra, non rimangano alcune perplessità sul nome di Draghi. Nella nota del M5s fatta pervenire subito dopo la conferenza del premier emerge qualcosa di più di un semplice timore per la prosecuzione dell'azione di governo con Draghi lontano da Palazzo Chigi: “C’è ancora tanto lavoro da fare: è stato rinnovato ora lo stato d'emergenza, i dati sui contagi preoccupano gli italiani”.

Un certo scetticismo sulla possibilità che si possa continuare con questa maggioranza anche senza Draghi emerge anche quando si prova a sondare gli eletti M5s. “Dipende tutto dal fatto che si trovi o meno una maggioranza con un altro presidente del consiglio. L'impressione è che un altro premier, chiunque fosse, non reggerebbe”, viene fatto notare. “I parlamentari non vogliono votare, è vero, ma questo basta ad assicurare una maggioranza dopo Draghi? Per non andare a votare serve un governo, ma quale governo sarebbe in grado di chiudere il Pnrr nel 2022 con una maggioranza che va dalla sinistra alla Lega?” dice un altro parlamentare M5s.

Più possibilista appare una parlamentare di Articolo 1: “Se Draghi conferma la sua disponibilità a candidarsi, la partita è praticamente chiusa”, è la tesi. “Ieri, Draghi ha fatto chiaramente capire che il Quirinale gli interessa e che, se la maggioranza rompe sul Quirinale, è difficile possa andare avanti”. Dello stesso avviso è il segretario di +Europa, Benedetto Della Vedova: “Se i partiti si scontrassero sul Quirinale, la maggioranza rischierebbe molto. A quel punto io vedrei difficile ricostituirne una nuova capace di affrontare i temi, come si è reso necessario fare fino ad oggi”, spiega Della Vedova. Date le premesse, è dunque comprensibile che si torni a parlare del 'lodo Giorgetti'. Era stato il ministro leghista, pochi mesi fa, a evocare una sorta di semipresidenzialismo di fatto che vede Draghi, dal Quirinale, guidare l'azione di governo di un premier a lui vicino. Una ipotesi che allarma alcuni parlamentari della coalizione di centrosinistra. “Con Mario Draghi al Quirinale, soprattutto dopo le parole di ieri, in Italia ci sarebbe una riforma semipresidenziale di fatto”, segnala Luca Pastorino, deputato di Leu. “Senza nemmeno un dibattito, sarebbe modificata la Costituzione nella sua applicazione. E' una questione di rispetto istituzionale che non si può eludere”. Ma così ci si porta troppo ‘avanti’. Prima bisogna vedere se i partiti, i leader e i parlamentari peone lo voteranno mai, Draghi, al Colle.

 

 

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