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Il governo Meloni spegne due candeline tra applausi e guai in vista. 

Tempo di bilanci per la premier e il suo governo. Era il 25 settembre 2022 quando il centrodestra vinse le elezioni politiche

Giuseppe Alberto Falcidi Giuseppe Alberto Falci   
Il governo Meloni spegne due candeline tra applausi e guai in vista. 
Meloni dopo la vittoria delle elezioni (Ansa)

È tempo di bilanci a Palazzo Chigi. Solo due anni fa Giorgia Meloni - era il 25 settembre del 2022 - festeggiava la vittoria alle elezioni politiche. Un risultato che ha sparigliato lo stato dell’arte della politica nazionale che proveniva da una serie di esecutivi partoriti in Parlamento o comunque sotto la regia del Quirinale. La leader di Fratelli d’Italia ottiene invece un risultato pieno che le consente di approdare a piazza Colonna con i galloni della prima premier donna. Coalizione anch’essa sconquassata dopo gli anni del berlusconismo e  dopo il biennio di dominio salviniano. Su queste basi l'underdog varca il portone di Palazzo Chigi tra lo scetticismo di europei e americani. Perché non era mai successo che un paese fondatore della Ue finisse tra le braccia della destra figlia della tradizione missina. E perché tutto questo avrebbe dato una spinta significativa al sovranismo europeo. 

Consenso immutato

Dopo quarantotto mesi il consenso sembra essere immutato. Nemmeno l’ultimo dei casi che ha travolto l’esecutivo - il riferimento è all’affaire Sangiuliano - avrebbe indebolito in termini di popolarità il governo. Tutti gli istituti di ricerca fotografano Fratelli d’Italia attorno al 28% e la compagine di maggioranza ben salda davanti. Quarantotto mesi in cui tanti si sono dovuti ricredere - gli applausi di Confindustria della scorsa settimana possono esserne la dimostrazione, così come la nomina di Raffaele Fitto a vicepresidente della commissione Ue - e in cui tanti a loro volta sono rimasti fermi nella loro posizione. La politica estera ha rappresentato uno dei capisaldi dell’azione di Palazzo Chigi. Meloni ha mantenuto la barra dritta dell’atlantismo, una mossa che ha tranquillizzato i mercati e le cancellerie di mezza Europa, visto che all’interno della coalizione non sono mancati gli ammiccamenti da parte di Salvini nei confronti di Putin e Biden. Solo recentemente la presidente del Consiglio ha iniziato a tentennare ma pare lo abbia fatto in chiave elezioni americane per tenersi una porta con il tycoon Donald Trump che sfida la democratica Kamala Harris. Non proprio una mossa che lascia ben sperare. Allo stesso tempo, non aver votato Ursula von der Leyen le ha consentito di continuare a camminare a braccetto con la due volte presidente UdL. Promossa o bocciata, dunque?

Deficit della classe dirigente 

In questo contesto è indubbio sia emerso un deficit di classe dirigente: dal caso Sangiuliano alle vicende giudiziarie di Daniela Santanché, passando per un certo nostalgismo di rito fascista diffuso tra alcuni pezzi novanta del partito di via della Scrofa. «È l’anello debole di Giorgia» sussurrano in Transatlantico. Una questione che prima o poi l’inquilina di Palazzo Chigi se vorrà fare il definitivo salto. È evidente allo stesso tempo che da ora in avanti non sarà più lo stesso. L’autunno si prefigura complicato tra una manovra di bilancio difficile da mettere a terra perché la coperta finanziaria resta corta e un’azione di governo che stenta a decollare. A proposito il dossier riforme, fior all’occhiello della narrazione governista, sembra aver subito una frenata. In particolare, è ferma al palo il premierato, «la madre di tutte le riforme» come ha sempre scandito Meloni.

Il nodo del rimpasto

L’altra questione che prima o poi dovrà affrontare è il rimpasto. Parola che non vuole nemmeno pronunciare perché le ricorda gli anni della Prima Repubblica, dei governi penta-partitici, dei democristiani e dei socialisti che ogni tre per due si servivano della “verifica” per riannodare i fili di una compagine di governo. «Non chiamatelo rimpasto» dice sempre in privato con fastidio. Tutto vero ma Meloni deve distribuire le deleghe di Raffaele Fitto, indicato commissario europeo e uno dei sei vicepresidenti esecutivi di Ursula von der Leyen. Non è dato sapere per quanto tempo le terrà per sé, o se le distribuirà tra una serie di sottosegretari. Certo è che tutto questo si intreccia con il processo nei confronti di Daniela Santanché.

Ad ottobre ci saranno le udienze preliminari in cui la ministra del Turismo è imputata. Il gup dovrà decidere se mandare o meno a processo la Pitonessa per truffa ai danni dello Stato. Gira voce che la ministra e la premier avrebbero raggiunto un accordo: se il gup dice sì al processo Santanché dovrà dimettersi. A quel punto partirà la caccia al dicastero del Turismo. I leghisti da sempre puntano a quella casella. Anche in occasione della formazione del governo, nell’ottobre del 2024, avrebbero voluto ottenere quel ministero per Gianmarco Centinaio o Massimo Garavaglia perché è un ministero che considerano strategico per la narrazione del Carroccio. Casella che sarebbe gradita anche ai forzisti che potrebbero puntare su Letizia Moratti, già sindaco di Milano, già presidente della Rai, un profilo riconosciuto anche in Europa, a maggior ragione dopo l’elezione a Strasburgo.

In realtà Meloni non vorrebbe cedere il ministero del Turismo  e ha in mente due nomi come sostituti di Santanché: Manlio Messina e Tommaso Foti. E così si torna al punto di partenza: fare o non fare la verifica di governo? Tante le incognite su questo versante: l’inquilina di Palazzo Chigi è consapevole che il dossier potrebbe innescare tensioni all’interno della maggioranza. Gli altri azionisti della coalizione potrebbero avanzare richieste e, perché no, invocare una rivisitazione della squadra di governo. Uno scenario che, come si diceva sopra, Meloni vorrebbe evitare. Perché significherebbe riaprire il vaso di Pandora di tutte le caselle. E allora, al momento, meglio procrastinare a dopo le regionali di autunno. Un passaggio anche questo non facile visto che il centrosinistra ad oggi sembra essere favorito con un netto tre a zero. Festeggiati i primi 48 mesi, i prossimi si prefigurano ancora più complicati...

Giuseppe Alberto Falcidi Giuseppe Alberto Falci   
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