100 mila metri cubi di rifiuti nucleari e nessuno se li prende, ma spedirli all’estero costa miliardi
L’amministratore delegato della Sogin, la società del ministero dell’Economia che si occupa dello stoccaggio dei rifiuti nucleari, trasforma l’audizione in Senato in un grido di allarme: “Metà dei nostri progetti bloccati per mancanza di autorizzazioni, il deposito unico non sarà pronto entro il 2025”, dice Luca Desiata. Già nel 2015 dovevano essere individuate le aree adatte per ospitarlo, ma ancora non ci sono. L’alternativa allo stoccaggio in Patria è quella di spedire i rifiuti nucleari prodotti in Italia all’estero: “E’ una decisione politica, stiamo parlando di qualche miliardo”, avverte. Il governo si è però impegnato a tagliare i costi, non ad aumentarli.

Quello che sta accadendo coi rifiuti “normali” prodotti in alcune regioni del Mezzogiorno, presi, imballati e spediti all’estero per il costosissimo smaltimento, potrebbe capitare presto, in maniera ancora più onerosa, con i rifiuti nucleari. Non ci sono solo quelli che immaginiamo, ad “alta radioattività”, 17mila metri cubi di residuato di quando in Italia c’erano le centrali nucleari, già trattate in Francia e in Inghilterra, ma, soprattutto, c’è il materiale radioattivo “a media e bassa attività” che si produce giorno dopo giorno nelle fabbriche e negli ospedaliz. Stiamo parlando di circa 78mila metri cubi di materiale residuo di reagenti farmaceutici, mezzi diagnostici degli ospedali, radiografie industriali, ma anche di (vecchi) parafulmini e rilevatori di fumo che, per funzionare, contengono americio.
Per occuparsene esiste Sogin, la società statale responsabile dello smantellamento degli impianti nucleari italiani e della gestione e messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi prodotti dalle attività industriali, di ricerca e di medicina nucleare. Controllata dal Ministero del Tesoro è impegnata a mettere in sicurezza capannoni e depositi sparsi per il territorio nazionale e, dal 2010, per a creare un sito di stoccaggio unico, in un luogo sicuro, al riparo da possibili calamità naturali. L’ex ministro Carlo Calenda si era impegnato a velocizzare le pratiche, ma le cose non sono andate come dovevano. Lo stesso lavoro quotidiano di chi deve controllare il ciclo dei rifiuti nucleari è ostacolato dalle proteste e dall’opposizione degli enti locali. A rivelarlo è stato ieri l’amministratore delegato di Sogin nel corso della sua audizione davanti alla commissione Industria al Senato. La relazione di Luca Desiata è suonata ai senatori-commissari, e in particolar modo a quelli della maggioranza gialloverde, come una specie di allarme rosso. “Nei prossimi anni circa la metà delle attività di Sogin potrebbe risultare bloccata per la mancanza di autorizzazioni”, ha detto il manager-scacchista. Gli enti locali si oppongono alla creazione di siti di stoccaggio ed è “escluso il completamento del deposito unico nazionale al 2025”, mentre tutte le altre attività procedono a velocità dimezzata rispetto alle previsioni. I numeri forniti sulle attività programmate per gestire il ciclo dei rifiuti nucleari sono impressionanti: per il 2019 restano da autorizzare attività per 32 milioni su un totale di 115 milioni programmati; per il 2020 sono da autorizzare 54 milioni su 140 milioni; per il 2021 94 milioni su 190 milioni; per il 2022 110 milioni di attività su un totale di 180 milioni. “Ogni anno di ritardo si aggiunge al ritardo sulla vita intera”, ha sottolineato il manager, che è anche filosofo.
Desiata ha definito il passaggio autorizzativo tra la fattibilità dei progetti e la fase ingegneristica come “il collo di bottiglia principale”. Le opere da fare sarebbero possibili, ma gli enti locali, su pressione dei residenti, non le autorizzano. Questo è un danno anche per le commesse. Fin quando non saranno autorizzati i progetti, la società, partecipata al cento per cento dal ministero dell’Economia, dice che non potrà rafforzare il settore ingegneria “perchè è inutile produrre progetti che poi non sono autorizzati”. Durante l’audizione, l’amministratore delegato ha spiegato che le autorizzazioni a realizzare opere ottenute da Sogin sono quattro, altrettante sono ancora da ricevere: il 50 per cento. Le approvazioni sospese, invece, sono 38: 16 da oltre tre anni; 14 da un periodo che va da tre anni a un anno; 8 da un anno. Per questa ragione, ha chiesto al Parlamento maggiori risorse e il “un rafforzamento urgente dell’ l’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione”, che già quando venne creato, dei 54 dipendenti che gli erano stati assegnati, ne contava un buon 30% prossimo alla pensione.
Le mancate opere dovute alle poche autorizzazioni costringono il nostro Paese a inviare i rifiuti all’estero. I 17 milioni di metri cubi provenienti dalle centrali nucleari italiane chiuse dopo il referendum del 1987 sono stati trattati in Francia e Inghilterra. Sogin rivela che “nei contratti con inglesi e francesi per il mantenimento di scorie italiane in quei Paesi ci sono clausole di estensione dello stoccaggio temporaneo”, che “sono onerose, ma è quello che paghiamo pure oggi”. Mentre gli inglesi si muovono con “un minimo di flessibilità per necessità economica”, questa disponibilità non si trova nei francesi, che “vedono un problema politico sul ritorno dei rifiuti nucleari italiani”. L’unica soluzione stabile al problema resta la realizzazione di un deposito nazionale, che va individuato tra 60 località top secret potenzialmente idonee ad ospitare il capannone super blindato in cui riunire i fusti pieni di scorie, oggetti, scarti e cianfrusaglie radioattive. Si sa solo che si tratta di luoghi poco abitati, con una sismicità modesta, dove non esistono rischi di frane o di alluvioni. Alcune indiscrezioni negli anni scorsi avevano circoscritto i luoghi maggiormente indiziati per ospitare il deposito centralizzato, che esiste in tutti i Paesi ed è imposto dai Trattati internazionali, sulle colline del versante adriatico dell'Appennino o nelle aree comprese fra Toscana e Lazio e tra Puglia e Basilicata. I tempi e le caratteristiche del sito erano state decise col decreto legislativo 31 del 2010 e l’elenco dei luoghi possibili sarebbe dovuto essere sottoposto ad una consultazione pubblica il 2 gennaio 2015, ma, ancora tre anni dopo, tutto è chiuso nelle casseforti governative. L’alternativa è quella utilizzata per risolvere l’emergenza rifiuti in Campania: spedire all’estero i rifiuti nucleari già prodotti e quelli che vengono prodotti via via nel nostro Paese: “La normativa Ue lo permette, invece leggi nazionali in alcuni Paesi europei non lo permettono”. Del resto, ha avvertito Desiata, “da un punto di vista normativo la vendita di scorie all’estero è fattibile ma ha costi estremamente elevati. È anche una decisione politica, stiamo parlando di qualche miliardo”. Tantissimi soldi per un governo che si è appena impegnato davanti alle autorità di Bruxelles a tagliare 4 miliardi di spesa pubblica.