"Su un mondo di cose appassite, c’è un soffio di vita soltanto". La storia di Lucy, unica trans sopravvissuta a Dachau
In un documentario, l’unica donna transessuale, oggi 96enne, sopravvissuta al campo di concentramento di Dachau, ci ricorda l’importanza della memoria

“Mi chiamo Lucy Salani. Sono nata nel 1924 a Fossano da una famiglia antifascista, di origine emiliana. Sono una donna transessuale italiana sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti. Ho quasi 97 anni”. Si presenta con queste parole la protagonista di C’è un soffio di vita soltanto, il documentario che Marco Botrugno e Daniele Coluccini hanno dedicato a uno dei simboli italiani del movimento LGBTQI+, all’unica testimone trans sopravvissuta al campo di concentramento di Dachau che in poco più di un’ora ci ricorda quanto sia importante la memoria affinché un passato di orrori non si abbatta di nuovo contro chi viene discriminato. "Mi sono sempre sentita femmina fin da piccola", dice nel film, presentato al 39esimo Festival del Cinema di Torino - mia madre era disperata. Volevo sempre fare ciò che a quell’età facevano le bambine: cucinare, pulire e giocare con le bambole. Mio padre e i miei fratelli non mi accettarono. Negli anni trenta i miei genitori si trasferirono nel bolognese e fu così che in città allacciai amicizie con diversi omosessuali. Che colpa ne ho io, se la natura mi ha fatto così? Me lo sono sempre chiesta e ho cercato di farlo capire”.
L’Italia fascista, gli insulti e la chiamata alle armi
All’epoca, non si parlava di omosessualità, non si doveva dare troppo nell’occhio. “Le bande di fascisti dove trovavano persone come noi combinavano sempre guai, picchiavano, rapavano, imbrattavano di catrame”. La guerra? “Non me l’aspettavo. Quando uno è giovane, non è che pensi tanto a quello che potrebbe venire, ma sono stata chiamata. Mi è arrivata la cartolina a 19 anni e mi mandarono al nord ed è lì ho incominciato a fare il militare”. Da quel momento, la sua vita è stata tutta un correre e scappare verso e da qualcosa, molto spesso anche da qualcuno, spostandosi da una parte all’altra dell’Italia facendo scelte obbligate tra fascisti e tedeschi in un quotidiano di espedienti e privo di mezzi, tra minacce, insulti, botte e altre fughe: dall’esercito, e dall’ospedale, dalla galera a Modena e da quella in Germania per finire poi a Dachau, dimenticando il nome, divenendo un numero.
A Dachau, il vero inferno
“In quel campo di concentramento – ricorda – è iniziato il vero Inferno. Quello di Dante non era nulla a confronto”. Ricorda le brutture e le violenze viste e subìte, gli espedienti, le ferite, i dolori, la liberazione e la salvezza fino al ritorno a casa. I suoi non ci credevano, sua madre quando la vide svenne. Sono già tornata tre volte a Dachau dopo la liberazione e tutte le volte provo una sensazione che non riesco a descrivere. Ho un blocco e mi continuano a scendere le lacrime… È impossibile dimenticare e perdonare. Ancora alcune notti mi sogno le cose più orrende che ho visto e mi sembra di essere ancora lì dentro e per questo voglio che la gente sappia cosa succedeva nei campi di concentramento perché non accada più”.
Abusi e soprusi, il cambio di sesso, la scelta di conservare il nome datole dai suoi genitori
A quei ricordi terribili, si aggiunge quello altrettanto orrendo del prete che abusò di lei quando era piccola e ancora si chiamava Luciano. “In realtà” – precisa - nonostante sia stata una delle prime italiane a sottoporsi, nel 1982 a Londra, a un intervento chirurgico di riassegnazione del sesso – “quel nome lo conservo ancora oggi”. “Il mio nome è prezioso – spiega nel documentario – Me l’hanno dato i miei genitori, è sacro. Perché una donna non si può chiamare Luciano?”. Come spesso accade, al di là della ripugnanza per pedofili e nazisti, Lucy non recrimina mai, non si lamenta e non giudica nessuno, nemmeno il rifiuto ricevuto dalla sua famiglia: “Grazie, dicevo ai miei genitori. Vi ringrazio, perché a me piace essere così”. Una lezione di vita.
“Su un mondo di cose appassite, c’è un soffio di vita soltanto”
Il senso, in fondo, sta tutto nei versi della poesia scritta sui banchi di scuola: “Su un mondo di cose appassite, c’è un soffio di vita soltanto”. Da qui la scelta del titolo fatta dai due registi che per un anno intero si sono immersi nella vita di Lucy, “fatta di ricordi, incontri e momenti di solitudine”. “Ci siamo interrogati spesso su come mettere mano su un materiale umano così delicato e prezioso e siamo giunti alla conclusione che la regia dovesse essere messa al servizio della storia e, soprattutto, di Lucy. Siamo rimasti attaccati a lei per far sì che anche lo spettatore potesse vivere quest’esperienza esattamente come l’abbiamo vissuta noi”. Il risultato è la storia di un’identità che resiste e sopravvive, malgrado tutto, in un XXI secolo in cui il senso della memoria sembra affievolirsi di fronte al lento incedere dei fantasmi del passato.