La “juta dei femminielli” e la bellezza della non conformità

Quella che si celebra ogni anno il 2 febbraio alla Madonna di Montevergine è una delle devozioni più sentite in Campania dalle associazioni Lgbtqia+ ma non solo

La “juta dei femminielli” e la bellezza della non conformità

Il 2 febbraio – quest’anno al centro dell’attenzione più che mai grazie alla data palindroma (02-02-2020) - è stato il giorno della Candelora, quello in cui si ricorda la presentazione di Gesù al Tempio e si è soliti benedire le candele portate dai fedeli in chiesa come simbolo della luce irradiata da Cristo, ma c’è di più. Secondo un’antica tradizione, ogni 2 febbraio di celebra anche “la juta dei femminielli” al santuario della Madonna di Montevergine sito nel Parco regionale del Partenio. La parola “juta” significa “l’andata” in dialetto napoletano e loro sono “gli uomini che vivono e si sentono come donne”, protagonisti indiscussi di una delle devozioni più sentite della Campania visto che risale al settimo secolo, ai tempi di Sergio I.

Perché – vien da chiedersi – ancora oggi i femminielli superstiti e le persone Lgbti si recano una volta l’anno a venerare l’icona medievale della Vergine in trono, chiamata popolarmente “Mamma Schiavona” per la carnagione olivastra del viso e delle mani con cui è effigiata? La motivazione è da ricercarsi in una narrazione orale molto tardiva perché risalente al secolo scorso, secondo la quale nel 1256 la Madonna di Montevergine avrebbe miracolosamente liberato due amanti omosessuali, legati a un albero tra lastre di ghiaccio.

Il giorno dell’intervento prodigioso sarebbe stato proprio il 2 febbraio. Al di là della veridicità o meno dell’accaduto, che conserva però la bellezza ingenua dei fioretti agiografici, le antiche cronache sono concordi nell’attestare la juta a Montevergine in relazione a quel fenomeno che oggi sarebbe qualificato come crossdressing, cioè l’atto di indossare abiti che sono comunemente associati al ruolo di genere opposto al proprio.

Il culto di Mamma Schiavona

L’abate Gian Giacomo Giordano, ad esempio, come si legge nelle sue Croniche di Montevergine (1642), narra dell’incendio avvenuto nel 1611 dell’ospizio annesso al santuario e riservato all’accoglienza dei pellegrini. “Alla notte nella quale successe l’incendio – scrive l’autore che, dopo essere divenuto vescovo di Lacedonia, considerò quanto accaduto come un castigo divino – mentre al miglior modo possibile si seppellivano quei tanti cadaveri, nel lavarli le vesti di prezzo che portavano, per restituirli alli loro parenti, furono ritrovati alcuni corpi di huomini morti vestiti da donne, e alcune donne morte vestite da huomini”.

Un riferimento più antico al fenomeno verginiano del crossdressing si può forse ravvisare anche nella Vita Sancti Vitaliani, falso agiografico del XII secolo, in cui si narra che Vitaliano, vescovo di Capua, avrebbe eretto proprio sul monte Partenio un oratorio in onore della Madonna, presso il quale sarebbe morto nell’ultimo anno del VII secolo.

A restare intatto, comunque, è l’attaccamento dei femminielli e delle persone Lgbtqia+ campane a Mamma Schiavona. Anche quest’anno si sono confusi agli altri pellegrini e hanno caratterizzato la giornata di Candelora coi loro abbigliamenti, i loro atti di pietà popolare e gli struggenti canti in napoletano, un festeggiamento per loro e per l’intera comunità Lgbtqia+, ma soprattutto per tutti, perché quella è un’occasione per celebrare la religiosità nelle sue varie forme e la libertà fluida assieme alla bellezza e alla ricchezza della non conformità.