Un mese senza Amedeo Ricucci: «La fame di storie non ci salva, apre (forse) gli occhi al mondo»

Un mese senza Amedeo Ricucci: «La fame di storie non ci salva, apre (forse) gli occhi al mondo»

Negli ultimi anni più di una volta sei tornato sulle orme di quell’agire umanitario che era stato il passo che ti aveva condotto al giornalismo di esteri. Ed eri tornato a raccontare cose antiche, che nessuno vuole vedere, di cui nessuno si cura, come “la fame”, titolo del tuo ultimo reportage per Tv7 del Tg1. Un tema sul quale non si fa prima serata e nemmeno carriera, quella che hai fatto per naturale competitività, ma senza la protervia e il narcisismo con cui la fanno in molti, che hanno a cuore solo se stessi, mentre dicono di dare voce a chi voce non ha. Mentre schivavi le barrel bombs di Assad ad Aleppo e il portellone di un’autoambulanza si apriva davanti all’ospedale locale, quella donna insanguinata mise in dubbio tutto il senso di quello che facciamo. Ti disse: «Cosa me ne faccio se tu racconti la mia storia, quando né tu né nessun altro mi potrete salvare perché, in fondo, il mio dolore non interessa davvero a nessuno?»

Il ricordo di LAURA SILVIA BATTAGLIA

Le scarpe del cronista sui marciapiedi insanguinati del mondo
Le fatidiche scarpe del cronista, Amedeo Ricucci le ha consumate sui marciapiedi — quando c’erano, e non erano polverosa terra battuta — insanguinati da guerre e conflitti armati. Inviato sul campo da “Professione Reporter”, “Mixer”, “La Storia Siamo Noi”, “Tg1” in Algeria, Somalia, Bosnia, Ruanda, Liberia, Kosovo, Afghanistan, Libano, Iran, Iraq, Palestina, Tunisia, Libia, Siria. Era con Ilaria Alpi e Miran Hrovatin nel viaggio in Somalia che il 20 marzo del 1994 si concluse con l’uccisione della giornalista del “Tg3” e del suo cameraman. Presente al momento dell’uccisione del fotografo del “Corriere della Sera” Raffaele Ciriello avvenuta il 13 marzo 2002 a Ramallah sotto i proiettili dell’esercito israeliano durante la seconda Intifada palestinese. Ricucci era stato anche sequestrato in Siria dal gruppo jihadista Al Nusra, vicino ad Al Qaeda, dal 3 al 13 aprile 2013. Su questo episodio ha pubblicato il libro “La guerra in diretta: Iraq, Palestina, Afghanistan, Kosovo. Il volto nascosto dell’informazione televisiva”. Nel 2011 crea il blog “Ferri vecchi”. Dal 2013 ha lavorato nella redazione Speciali del Tg1. Era nato a Cetraro, in provincia di Cosenza, il 31 luglio 1958.  È morto l’11 luglio 2022 nella stanza di albergo a Reggio Calabria, durante un reportage sulla ‘Ndrangheta. Giornalista professionista dal 1998, ha ottenuto nella sua lunga carriera diversi riconoscimenti fra cui il Premio Javier Valdez (2020), il Premio Carlo Azeglio Ciampi “La Schiena dritta” (2019), il Premio Acqui Storia (2019) per La storia in TV, il Premio Ilaria Alpi (2001), il Premio Giornalisti del Mediterraneo.

È PASSATO UN solo mese dalla tua scomparsa, Amedeo, ed è un mese in cui la tua assenza pesa come un macigno. Quando mi giro indietro — e come me tutti i colleghi che ti hanno conosciuto e quelli che ti erano amici, soprattutto — mi rendo conto di quante potrebbero essere state le cose sulle quali avresti saputo dire parole sagge, non banali, non scontate. Scomode, diciamolo pure. Dopo le tue riflessioni su quanto il mestiere del giornalista stesse cambiando ma soprattutto su quanto stesse cambiando la preoccupazione etica alla base di esso durante e dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, mi sono chiesta cosa avresti detto (e scritto) sull’omicidio dell’ambulante nigeriano Alika Ogorchukwu ucciso a Civitanova Marche. Una vicenda rispetto alla quale ho letto colleghi implicitamente approvare il comportamento di chi ha preferito osservare per lunghissimi quattro minuti l’assassino di quest’uomo da dietro la lente del proprio cellulare, senza provare a salvargli la vita, perché “quel video ha il valore della testimonianza”. 

Mi sono chiesta cosa non avresti scritto tu, che per anni hai incarnato il valore di questa testimonianza sulle strade del mondo, ma che negli ultimi anni più di una volta sei tornato sulle orme di quell’agire umanitario che era stato il passo che ti aveva condotto al giornalismo di esteri. Ed eri tornato a raccontare cose antiche, che nessuno vuole vedere, di cui nessuno si cura, come “la fame”, titolo del tuo ultimo reportage per Tv7 del Tg1. Un tema sul quale non si fa prima serata e nemmeno carriera, quella che hai fatto per naturale competitività, ma senza la protervia e il narcisismo con cui la fanno in molti, che hanno a cuore solo se stessi, mentre dicono di dare voce a chi voce non ha. 

Forse so cosa avresti scritto, ma qualsiasi riflessione tu abbia fatto so che poteva essere nata dalla domanda-grido che ti vomitò addosso quella donna siriana, ad Aleppo, mentre con Elio Colavolpe e Cristiano Tinazzi, schivavate le barrel bombs di Assad e il portellone di un’autoambulanza si apriva davanti all’ospedale locale. Quella donna mise in dubbio tutto: tutto il tuo operato, tutto il tuo mestiere, tutto il senso di quello che facciamo. Ti disse: «Cosa me ne faccio se tu racconti la mia storia, quando né tu né nessun altro mi potrete salvare perché, in fondo, il mio dolore non interessa davvero a nessuno?». 

Dopo nove anni di guerra in Siria e i miliardi di dollari degli aiuti umanitari da parte dei Paesi donatori che transitano massicciamente verso nuove guerre, le cui vittime sono bianche ed europee, e fisicamente — apparentemente — più vicine, questa domanda è sempre più scomoda. Brucia come una ferita aperta e rimbalza da te a noi con tutto il peso di un’eredità irrisolta. Molte volte parlasti in pubblico e in privato di quella domanda, di come ti avesse fatto vacillare. Anche il tuo ultimo libro prima del Covid la portava a suggello dell’introduzione e di tutta la raccolta di quei reportage. 

Poi sono arrivate altre cose: il tuo rapimento, la chirurgia, il senso del naturale rallentarsi di ogni cosa dovuto al tempo che ci fiacca, ci cambia, e leviga anche gli scogli più puntuti come sa fare il vento di maestrale. Ho avuto il privilegio di esserti amica in questa fase, di potere raccogliere le tue domande esistenziali, quell’apparente abisso che separa chi crede in un’altra vita e chi no — ma, del resto, siamo tutti ciechi, e sappiamo di non sapere allo stesso, umanissimo, modo — e di ricevere dei consigli di moderazione che arrivano solo con l’età: lavora ma pensa alla tua salute, siamo malati di questo lavoro ma non fare come me che ho esagerato, vai dal medico e non partire, se non te la senti. Allo stesso modo mi chiamasti per scrivere di Yemen su Italia Libera e accettai, perché a un maestro non si può dire di no. 

Ma non te ne voglio, quantomeno non allo stesso modo di avere appreso come te ne sei andato: lavorando, e magari spingendo l’asticella dello sforzo un po’ più in là. Non credo che tu sia riuscito a rispondere alla domanda di quella donna. Quello che accade nelle guerre intorno a noi — ancora e ancora — le dà ragione. Ma so che avevi già fatto il possibile per accontentarla, donando quel che era tuo a molti suoi giovani connazionali, senza dirlo a nessuno, senza clamori.  Alla fine, la fame di storie non ci salva e non ci redime, Amedeo, e questo me lo hai insegnato senza dirmelo in questi ultimi anni. Questa fame non è mai abbastanza e non risolve abbastanza, per ogni vita che — raccontata o taciuta — se ne va all’altro mondo. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Un inviato speciale “per vocazione”, dove i fatti avvengono
L’articolo di IGOR STAGLIANÒ
AMEDEO SE N’È andato un mese fa, a 63 anni, in una stanza d’albergo a Reggio Calabria mentre girava un reportage sulla ‘Ndrangheta. Lo ricordiamo oggi con le parole di una collega che lui stimava (e lei lo ammirava), frequentando insieme i tanti luoghi disgraziati di questo nostro mondo. Ci saremmo dovuti vedere due giorni dopo, al Festival Officine Permanenti organizzato dal Circolo Rosselli a Cagliari dal 12 al 15 luglio. La parola chiave dell’edizione di quest’anno era #Caos. Agli organizzatori del meeting avevo suggerito la presenza di Amedeo per ragionare sul tema, dipanando un filo che aiutasse a decifrare gli eventi in corso nel caos della guerra ucraina. Sul campo, negli ultimi trent’anni aveva raccontato tutte le guerre e i conflitti armati che hanno insanguinato Africa, Medio Oriente, Asia ed Europa: dal Kosovo all’Afghanistan, dall’Algeria, all’Iraq; sequestrato in Siria nel 2013 dal gruppo jihadista Al Nusra, vicino ad Al Qaeda, nella prima fase della guerra civile esplosa dopo le Primavere Arabe; inseguito dai colpi di kalashnikov degli schiavisti libici. 

In Ucraina c’era già stato nel 2014, e i prodromi della guerra ripartita su più larga scala il 24 febbraio di quest’anno li aveva raccontati con acume e sguardo lungo. Di ritorno dal Donbass gli chiesi che stesse succedendo. Mi rispose secco: «Brutta storia. Piena di nazionalisti che non promettono nulla di buono. Il sud est del paese pullula di nazisti. Si scanneranno per anni». Nella redazione degli Speciali del Tg1 avevamo la scrivania accanto e a parlare era soprattutto il suo sguardo. Aveva capito benissimo, otto anni prima, come sarebbe andata a finire a partire dalla rivolta di Piazza Maidan. Sentirsi messo in un canto dopo l’invasione di Putin dal telegiornale al quale aveva dato tanto lo faceva star male più delle cure con cui combatteva da tempo il nemico che divorava la sua carne. Era arrivato il turno degli “inviati” di giornata, senza preparazione specifica e nessuna conoscenza dei luoghi e del contesto in cui gli eventi si consumano. E non gli piaceva, non gli era mai piaciuta, l’informazione con l’elmetto. Lo mise nero su bianco anche su queste pagine all’inizio di quest’ultima guerra sulla porta di casa, pur sapendo che non gli avrebbe giovato affatto nelle dinamiche aziendali.

Competenza e compassione sono state il filo del suo impegno professionale a tutte le latitudini. I fatti sempre in primo piano, verificati sul campo, gli interessi dei vincitori e le ragioni dei perdenti raccontati con lo sguardo sulle vittime dei conflitti. Quel filo ha intessuto anche i tanti premi e riconoscimenti raccolti da Amedeo. Quello che lo inorgogliva di più era anche il più emblematico: il Premio Carlo Azeglio Ciampi “La Schiena dritta” del 2019. Per lui, e per chi ama questo lavoro — nel servizio pubblico radiotelevisivo e non solo —, era e resta la giusta bandiera sotto cui combattere. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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