Ucraina, il patriarca russo che ignora Abele per favorire Caino. Ne ha approfittato per colpire gli omosessuali

Ucraina, il patriarca russo che ignora Abele per favorire Caino. Ne ha approfittato per colpire gli omosessuali

Il vecchio Cirillo ha legittimato l’intervento cosiddetto di “autodifesa” nei confronti dell’Ucraina, scagliandosi nel contempo contro gli aborriti modelli di vita occidentali. Più di tutto, contro la depravazione dei costumi sessuali che i degenerati occidentali conglobano nella “lobby gay”. Da qui una terribile crisi teologico-esistenziale anche per la Chiesa ucraina, intimamente legata alla Russia. Come uscirne? L’Ucraina dovrebbe cedere alcune delle aree di confine dove è più concentrata la popolazione filo-russa e dovrebbe rinunciare definitivamente ai legami con Mosca. Pacificato il Paese, Kiev dovrebbe entrare nell’Europa, mantenendo chiara la distinzione tra Ue e Nato, della quale non verrebbe a far parte. Un’Ucraina del tutto filo-occidentale potrebbe adottare l’alfabeto latino al posto dell’odierno alfabeto cirillico, imposto dalla Russia imperiale nei primi anni del secolo XIX

L’articolo di CARLO GIACOBBE
CON UNA INIZIATIVA che lascia sgomento chiunque abbia una visione laica del mondo e non sia abituato a una sovrapposizione tra potere politico e religioso, il patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Kirill (Cirillo I), ha preso posizione in favore dell’invasione russa dell’Ucraina. Ha dato la sua benedizione alla decisione di Vladimir Putin di scatenare una guerra che sotto molti aspetti si può ben dire fratricida: ha ignorato Abele, schierandosi dalla parte di Caino. Forse lo ha fatto perché non aveva scelta, ma visto che c’era ne ha approfittato per trarre un utile alla causa di un sistema che più che al dio di una religione rivelata, sembra rifarsi a un moderno moloch. Prima di tentare di capire meglio questa sconcertante figura di religioso, tuttavia, non è inutile riassumere per grandi linee la nascita delle Chiese orientali autocefale, che si usa chiamare ortodosse.

Circa un migliaio di anni fa, quando ebbero la (si ritiene gradita) sorpresa di essere ancora vivi, per la mancata realizzazione delle teorie millenariste che preconizzavano la fine del mondo, i cristiani che avevano formato la Chiesa di stato dell’Impero romano post-pagano basata sulla pentarchia (ossia oltre a Roma i patriarcati orientali di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme) pensarono bene di dare vita alla separazione che perdura ancora oggi tra cattolici e ortodossi, che venne denominata “il grande scisma”. Sono i “secoli bui”, in cui il papa di Roma (Leone IX) che riteneva di essere l’unico depositario del legato di Pietro primo vicario di Cristo, colpisce con la scomunica il patriarca di Costantinopoli (Michele I Cerulario) che cordialmente risponde con uguale moneta, lanciandogli l’anatema. Tra le diverse motivazioni all’origine della separazione, a parte alcune che a una moderna sensibilità laica sembrano risibili e/o assurde, due sono quelle sostanziali, almeno per quei tempi. Una politica e l’altra più teologica. La prima tocca direttamente l’autorità del papato di Roma, che per gli ortodossi ha introdotto diverse innovazioni in contrasto con la tradizione delle origini. Roma dal canto suo, ribadendo la sua pretesa di essere a capo della pentarchia, chiama a testimonianza i vangeli (di Matteo e Giovanni) a conferma di essere in possesso delle “chiavi del Regno”, che simboleggiano il vero potere in termini gerarchici e giurisdizionali. L’altro punto fondamentale e ancora insanabile su cui si basava e si basa la controversia, riguarda una cruciale questione trinitaria: per gli ortodossi lo Spirito santo deriva soltanto dal Padre, mentre per la Chiesa latina (romana) anche dal Figlio.

Dopo molti secoli, trascorsi nell’indifferenza e nel sostanziale, reciproco disprezzo, un dialogo all’insegna dell’ecumenismo e quasi di una ritrovata fratellanza era stato avviato tra la Chiesa di Roma e i patriarcati ortodossi, il più importante dei quali era stato proprio l’ultimo a formarsi, quello di Mosca. Qualche giorno fa è bastata una omelia di Cirillo perché tutto il paziente lavoro fatto sinora per tessere i rapporti tra le Chiese di Roma e Mosca sembra essere precipitato. Ciò che ha detto il capo della più grande delle Chiese autonome ortodosse è cosa ormai nota, che ha suscitato riprovazione nella stragrande maggioranza delle nazioni del mondo. Di queste, senza sorpresa, non fa parte l’Iran, che appena può sottolineare la sua avversione per il “satanico” stile di vita occidentale, Usa primi fra tutti, anche più odiati di Israele, ci si tuffa volentieri. Ma mentre quello iraniano è un regime teocratico, in cui i preti sciiti dettano le regole ai politici loro asserviti, in Russia accade esattamente il contrario; sono i politici, in questo caso il nuovo “zar” Putin, che impartiscono gli ordini al patriarca, che essendo cruciale nell’edificazione del consenso è obbligato a inneggiare all’operato del capo. 

Quindi il vecchio Cirillo, richiesto di fare il possibile per tacitare malumori e dissensi interni, guardandosi bene dal pronunciare le parole “guerra” o “invasione”, ha legittimato l’intervento di “autodifesa”, scagliandosi nel contempo contro gli aborriti modelli di vita occidentali, come decadenza della morale e consumismo sfrenato. Più di tutto, contro la depravazione dei costumi sessuali che i degenerati occidentali conglobano nella “lobby gay” e nella diabolica sigla LGBT. Ciò ha gettato in una terribile crisi teologico-esistenziale anche la Chiesa ucraina, che non essendo autocefala ma godendo soltanto di una certa autonomia rispetto al patriarcato moscovita, è intimamente legata alla Russia. Peraltro il fondatore della Chiesa ortodossa russa nell’anno 988, San Vladimir I (nomen omen, penseranno alcuni), era nato proprio a Kiev. L’attuale metropolita ucraino Epifanio, che pur avendo chiesto la malleveria del patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I per ottenere l’autocefalia che Cirillo non era disposto a concedere (immagino sempre su pressione del Cremlino) non si sente di abbandonare del tutto la Chiesa russa, a cui quella ucraina resta comunque strettamente legata.

In questa disputa politico-religiosa, cercando di districarmi nei meandri di una organizzazione ecclesiale di estrema complessità anche per gli specialisti, davanti ai miei occhi di peccatore razionalista e miscredente si è però presentato un quadro che potrebbe contribuire a far uscire l’Ucraina dall’incubo attuale. Lo presento qui nella stessa forse ingenua schematicità con cui l’ho concepito. La premessa è che a parere di quasi tutti gli esperti di cose militari, Mosca non ha ancora dato un vero saggio della sua potenza rispetto all’apparato di difesa della nazione attaccata. Invece di seguitare masochisticamente a contrastare con le armi una forza preponderante come quella russa, l’Ucraina dovrebbe cedere almeno alcune delle aree di confine dove è più concentrata la popolazione filo-russa (che indubbiamente esiste, al di là della macchina propagandistica di Mosca) e una volta fissati con l’aiuto della comunità internazionale i suoi nuovi confini dovrebbe rinunciare definitivamente ai legami con Mosca. Allo stesso tempo Kiev, una volta pacificato il Paese, dovrebbe adoperarsi per entrare nell’Europa, mantenendo chiara la distinzione tra Ue e apparato militare Nato, del quale non verrebbe a far parte, che non senza motivo tanto preoccupa il Cremlino.

Per completare questo processo, potrebbe esserci un ulteriore passo che un’Ucraina del tutto filo-occidentale dovrebbe compiere. Adottare l’alfabeto latino al posto di quello glagolitico, termine che indica la più antica delle scritture slave, fondata dai monaci fratelli Cirillo e Metodio, dal quale deriva l’odierno alfabeto cirillico. Questa idea, peraltro, non è il vagheggiamento di un politologo a tempo perso, ma l’ho mutuata da una decisione annunciata già cinque anni fa dal Kazakistan, che in un decreto presidenziale ha fissato il 2025 come l’anno in cui sarà completata la transizione dall’alfabeto cirillico, imposto dalla Russia imperiale nei primi anni del secolo XIX, a quello latino. Che secondo quanto è stato reso noto dal governo del gigante kazako (il Paese ha una superficie pari a circa nove volte l’Italia) conterrà 32 lettere, nove delle quali saranno contrassegnate da segni diacritici per rendere alcuni suoni peculiari di quella lingua. Lo scopo, è stato detto, è per favorire una migliore integrazione del Kazakistan nella comunità internazionale, senza peraltro contemplare alcuna “incrinatura” dei rapporti con la Russia. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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