Tragedia del “Pertini” e maternità: una grande montagna da scalare in volata e in solitaria

All’ospedale romano “Pertini” una giovane mamma allatta suo figlio, nato da appena tre giorni. La donna, stremata, si addormenta e il neonato muore soffocato nella notte tra il 7 e l’8 gennaio, schiacciato nel letto proprio dalla mamma. Al “Corriere della Sera ha raccontato: «Ho chiesto aiuto per tre notti di seguito, ma non mi hanno ascoltato; ero ancora molto stanca, piuttosto provata dal parto, dopo 17 ore di travaglio. Avevamo scelto il Pertini perché ero affezionata a questo posto visto che ci sono nata anche io. Per due notti, quella dopo aver partorito e quella successiva, sono riuscita, a fatica, a tenere il bambino vicino a me. Ero stravolta, ho chiesto aiuto alle infermiere, chiedendo loro se potevano prenderlo almeno per un po’, mi è sempre stato risposto che non era possibile portarlo nella nursery». In questo racconto la riflessione di una giovane mamma sulla tragedia vissuta dalla ventinovenne romana, sconvolta e divorata oggi dal senso di colpa
Il racconto di SILVIA PIETRANGELI
MICHELE È NATO verso le sette e trenta della sera al General Infirmary di Leeds, Nord Inghilterra. Un parto naturale, veloce, così tanto rapido che se avessi dato retta alla midwife che mi invitava a tornarmene a casa e a mettermi comoda — che tanto ci sarebbero volute molte ore — mi avrebbe colto in macchina o chissà dove. Invece, dopo una trentina di minuti, ero già nella sala parto e pazienza per l’epidurale, ormai è tardi my dear, si vede già la testa, però prendi un po’ di gas esilarante e push, push!
Nonostante la concitazione del parto non sono tra quelle mamme rimaste traumatizzate.
Nel mio caso non c’è stata nessuna complicazione, nessun momento di pericolo per me o per Michele; è andato tutto così bene che di medici non s’è vista traccia. Ero consapevole che sarebbe stata dura, che ci sarebbe voluta molta fatica e dolore. D’altronde, nei nove mesi precedenti non mi ero persa una puntata di “One born every minute”, letteralmente “Un nato ogni minuto”, una specie di reality sui parti nel Regno Unito. Sapevo tutto sulle nascite a casa, fortemente consigliate dal sistema sanitario, senza che mi fossero però così chiari i presunti vantaggi di dare alla luce un bambino in stile “Casa nella prateria” (immagino però che tra le utilità ci fosse un qualche risparmio per le casse dell’Nhs). Sapevo tutto sui cesarei: cosa mi avrebbero fatto indossare, come mi avrebbero anestetizzata, quante persone sarebbero state presenti. Ero consapevole che avrebbero sconsigliato l’epidurale, che rappresenta per il sistema sanitario un costo di almeno novecento sterline. Sapevo che avrei potuto sedermi e molleggiare su quelle grandi palle di gomma che si usano per fare pilates al fine di stimolare le contrazioni; sapevo che avrei potuto partorire in piedi, sdraiata, su un fianco, a quattro zampe, in acqua. A proposito “Vuoi entrare nella vasca da bagno, my love?”. “No thank you, preferisco morire asciutta” credo di aver risposto.
Comunque, come dicevo, è andato tutto bene e una volta messi i punti, dopo aver smesso di tremare dalla tensione, dopo l’estenuante doccia obbligatoria fatta davanti all’infermiera che controllava che mi lavassi bene (non strabuzzate gli occhi, si tratta di un protocollo inglese previsto per evitare le infezioni, lascio a voi le conclusioni del perché in tale nazione sia necessario questo adempimento), ho pensato, illusa, che il peggio fosse passato.
Perché “One born every minute” si ferma lì, alle lacrime, agli abbracci, al fagottino caldo e sporco che ti posano sul grembo, al papà con gli occhi rossi, alla nonna commossa, al good job sweetie delle infermiere. Brava Silvia, mi ripetevo anch’io, sei stata coraggiosa. Adesso puoi occuparti del dolore della carne strappata, della spossatezza e di prendere confidenza con questa novità un po’ scioccante e spaventosa che è essere madre.
E invece no.
Prima di tutto c’era la notte da passare nella bolgia infernale del reparto maternità, nello stanzone rigurgitante di neomamme e rispettivi neonati, tra strilli, voci e confusione. Notte da passare rigorosamente da sola. Soltanto io, che non riuscivo neanche a stare seduta e Michele, che non aveva ancora compiuto tre ore di vita.
“Suo marito non può trattenersi.”
“Si, ma guardi io ho appena partorito, non mi sento bene, ho bisogno di aiuto, non riesco a muovermi, sono stremata”, cercavo di spiegare a uno di quei donnoni dai modi spicci che frequentano le corsie degli ospedali inglesi.
“Sorry, è il protocollo.”
“Stefano spiegale bene che tu sei un medico di questo ospedale, lavori proprio al piano di sotto, operi i bambini. Falle vedere il tesserino, mostraglielo.”
Nulla da fare. “Only the mums”.
E allora, superato il minuto della nascita, quello così telegenico e narrativamente emozionante, ti ritrovi a fare i conti con tutti gli altri minuti e le ore a venire, quando, a telecamere spente, il mondo intero si dimentica delle madri, della loro stanchezza, delle loro esigenze, del loro essere prima di tutto delle persone.
Hai voluto la bicicletta, e allora pedala. Questo è il messaggio forte e chiaro che arriva dalla società sin dal primo momento in cui si diventa madri (società che comunque non fa altro che lamentarsi della scarsa natalità).
E tutte noi pedaliamo quella prima notte insonne — ma del resto anche tutte le altre che seguiranno — tra dolori, pianti, rigurgiti, risatine, insofferenza e rimproveri delle infermiere, perché non lo sai attaccare al seno, perché non sai come si fa a cambiarlo, perché non lo sai sollevare, perché certo che lo devi portare tu alla visita dal pediatra spingendo la culletta dall’altra parte del mondo anche se ancora non ti reggi in piedi. Sei la mamma, no? E allora lo devi fare e basta.
Anche mangiarti i beans piccanti e le patate con la crema alle cipolle (alla faccia del brodino di cui si nutrivano le puerpere all’epoca di mia nonna) in modo da mettere l’ultima croce sul protocollo e potertene tornare a casa.
Tutte le mamme hanno sempre pedalato, in qualunque nazione e latitudine si trovassero, tanto, tantissimo, anche quando nelle prime settimane, mesi e anni di vita c’erano madri, nonne, sorelle, zie, vicine di casa che ogni tanto davano il cambio, prima che questa pedalata, questo tour di molte salite e poche discese fosse una volata in solitaria.
Prima che si chiedesse alle mamme di fare tutto e anche più di quello che le forze consentirebbero.
Quindi no, non sono per nulla stupita dalla tragedia che è capitata al “Pertini” di Roma. E alla rappresentante delle ostetriche italiane che ai microfoni ha dichiarato che molto dipende dal tipo di aspettativa che hanno le madri sul parto e sul diventare genitore, vorrei dire che si, in effetti un’aspettativa tutte noi ce l’abbiamo, quella di essere trattate da esseri umani. © RIPRODUZIONE RISERVATA