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‘The Laboratory of the Future’, decolonizzazione e decarbonizzazione alla Biennale di Lesley Lokko

di Italia Libera   
‘The Laboratory of the Future’, decolonizzazione e decarbonizzazione alla Biennale di Lesley Lokko

Con un ampio successo di pubblico, molti gli interrogativi offerti per la riflessione dalla curatrice: quale sarà il destino dell’architettura, quali le dimensioni antropologiche che determineranno la pianificazione urbanistica e la creazione architettonica contemporanea. La scienza del costruire, in questa Biennale è stata una ‘lente d’ingrandimento’ sulle criticità ed i cambiamenti dei territori, degli habitat, delle culture e del pianeta in generale. Con i riflettori puntati sulle questioni di valenza fondamentale per l’umanità come la decolonizzazione e la decarbonizzazione. Spazio anche a una serie di pionieristici progetti di giornalismo investigativo basato su strumenti di analisi architettonica e spaziale risultati fondamentali per la realizzazione di indagini che prima non sarebbero state possibili. ‘Leone d’Oro’ alla carriera a Baba Dumas Nwoko, architetto e scultore, designer e scenografo, scrittore-critico e storico, uno dei primi creatori nigeriani di spazio e forma a criticare la dipendenza della Nigeria dall’Occidente per l’importazione di materiali e beni, perseguendo il proprio impegno nell’utilizzo di risorse locali

◆ L’articolo di ANNALISA ADAMO, da Venezia

► La 18.ma Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia chiude i battenti e la curatrice Lesley Lokko ha voluto come sigillo un fine settimana densissimo di avvenimenti, incontri e proiezioni. ‘The Laboratory of the Future’ assume come ultimo atto la performance di poesia dell’artista e poeta Lion Heart − partecipazione speciale alla Biennale Architettura 2023 − con l’arazzo sonoro-visivo-testuale-orale ‘Those With Walls for Windows’, eseguito dal vivo alle Corderie dell’Arsenale. Brillante conclusione per una Biennale che ha registrato un notevole successo di presenze e che soltanto nel primo giorno di apertura ha avuto ben 7500 visitatori

Fin dalle intenzioni di Lesley Lokko, era chiaro a tutti che si sarebbe trattato di un evento destinato a lasciare più domande che soluzioni, pensato per mettere sul tavolo della discussione questioni di valenza fondamentale per l’umanità come la decolonizzazione e la decarbonizzazione. Una mostra di ‘destino’ se vogliamo trovare una parola che possa rappresentarne lo spirito, visto che restano numerosi − come nelle migliori intenzioni della curatrice − gli interrogativi offerti per la riflessione. Quale sarà il destino dell’architettura resta un campo ancora tutto da indagare ma certamente e ‘The Laboratory of Future’ ha portato a considerare nuove visioni, idee, paesaggi e ma, soprattutto, dimensioni antropologiche che saranno determinanti per la pianificazione e la creazione. 

Alla curatrice non si può non riconoscere il merito di avere dato seguito e raccolto il testimone che le era stato lasciato dal curatore dell’edizione precedente (2021), Hashim Sarkis, che con quell’indimenticabile titolo “How will we live together?” era andato già molto oltre la scienza del costruire. La Lokko si è guardata bene dal dare risposte definitive sulle strade e gli scopi che l’architettura contemporanea dovrà intraprendere e ha voluto, piuttosto, far diventare la sua Biennale una ‘lente d’ingrandimento’ sulle criticità ed i cambiamenti dei territori, degli habitat, delle culture e del pianeta in generale. L’aver voluto puntare i riflettori sull’Africa e sulla diaspora africana ha, inoltre, oltremodo accentuato la visione primordiale ed antropologica affinché si ragionasse finalmente intorno a quelle enormi fasce di umanità che sono da lungo tempo ignorate

Si è colto in quasi ogni padiglione dei paesi partecipanti l’auspicio ad una trasformazione umana attraverso un nuovo modo di focalizzare i luoghi, la memoria, l’identità prima ancora di passare alla progettazione, costituendo tali questioni un antecedente logico e talvolta persino pregiudiziale rispetto alle dinamiche creative e tecniche dell’architettura contemporanea. Se nel padiglione della Corea si immagina una vera rivoluzione ecoculturale attraverso una valutazione critica della nostra eredità antropocentrica e si lascia scegliere ad ogni visitatore il timbro con la domanda ecologica più giusta o urgente da apporre nei messaggi da affidare all’attenzione dell’Altro: “is culture above nature?”, “will our Historia bieco our future”, “will we meet our extinction at the consumer’s paradaise?”, “progress produces poverty?”; nel padiglione dell’Uruguay si affronta, invece, il tema del cambiamento senza precedenti che sta vivendo questo paese in seguito all’approvazione della legge forestale del 1987, grazie alla quale la superficie boschiva è cresciuta di oltre trenta volte con prospettive di un ulteriore incremento tanto da far considerare questa nazione un laboratorio per il futuro del legno

Degna di menzione speciale la circostanza che abbiano trovato spazio all’interno di questa edizione anche una serie di pionieristici progetti di giornalismo investigativo basato su strumenti di analisi architettonica e spaziale risultati fondamentali per la realizzazione di indagini che prima non sarebbero state possibili. L’installazione di Killing Architects esplora questi problemi utilizzando la recente indagine condotta sulla rete di campi di detenzione costruite dal governo cinese nello Xinjiang per la reclusione di massa dei musulmani. Torture, lavori forzati, campi di rieducazione, sterilizzazioni di massa e sorveglianza digitale: la politica della Cina nei confronti della popolazione degli Uiguri, minoranza turcofona mussulmana di stanza nell’estremo ovest del paese, ormai in bilico tra il crimine umanitario e il genocidio vero e proprio, è stata passata al setaccio di un’indagine giornalistica che, a causa dell’impossibilità di accesso ai luoghi, si è tutta basata sostanzialmente su metodi visivi e spaziali quali immagini satellitari, modellazione 3D e analisi dei regolamenti edilizi carcerari cinesi. Il metodo di detenzione messo a nudo dai China Cables, inchiesta giornalistica che ha coinvolto 17 testate coordinate dal Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi, ha vinto il Premio Pulitzer 2017

In definitiva l’edizione che si chiude sarà ricordata soprattutto per il ruolo centrale che hanno assunto i cosiddetti agenti di cambiamento, in linea con la mancanza di intenti didattici ma più essenzialmente esplorativi e sperimentali, in cui lo scambio reciproco tra partecipante, mostra e visitatore innesca la rottura di schemi predeterminati, accademici o sociali, mettendo in luce − piuttosto − il valore di aspetti non strettamente materiali. Ecco perché risulta molto coerente con questa visione l’attribuzione del ‘Leone d’Oro’ alla carriera a Baba Dumas Nwoko, architetto e scultore, designer e scenografo, scrittore-critico ma anche storico, la cui «produzione di opere materiali, come ha sottolineato Lesley Lokko, copre gli ultimi settanta anni ma la cui eredità immateriale – approccio, idee, etica – è ancora in via di valutazione, comprensione, celebrazione». 

Figlio di un Obi (sovrano), nato nel 1935 nel sud della Nigeria, Baba Dumas Nwoko fu uno dei primi creatori nigeriani di spazio e forma a criticare la dipendenza della Nigeria dall’Occidente per l’importazione di materiali e beni, perseguendo il proprio impegno nell’utilizzo di risorse locali. Nel 2022 in un articolo di Wallpaper pubblicato nel 2022, affermò: «Se avessimo tenuto fede a come operavano i nostri antenati, avremmo raggiunto un certo livello con una gestione ragionevole delle risorse naturali da cui anche il mondo occidentale avrebbe potuto imparare. Stanno usando troppa energia per quello che stanno ottenendo». Parole che rappresentano un vero manifesto per salvare il futuro, non solo dell’architettura ma dell’umanità. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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