Sulla traccia di Croce e Gobetti. Storia di Lacaita, editore a Manduria, ambasciatore al Sud di cultura laica

Sulla traccia di Croce e Gobetti. Storia di Lacaita, editore a Manduria, ambasciatore al Sud di cultura laica

Quante belle storie di cultura e passione per i libri che ci racconta il nostro Sud. Quella poi dell’editore Piero Lacaita, in quel di Puglia (regione d’origine di un altro nome importante dell’editoria, la dinastia Laterza) ha tutte le atmosfere di un Mezzogiorno diviso tra tradizione e slancio, tra fermenti letterari e comizi laici. Perché se è stato Benedetto Croce a consigliare a Piero “come” fare l’editore, è stato lo zio prete a fargli scoprire la passione per la carta stampata, lasciandogli in eredità le tante macchine tipografiche che aveva, chissà perché, comprato. Ecco la storia di un fenomeno culturale tutto di Manduria, che convinse Norberto Bobbio a spingersi quaggiù dalla sua Torino, per poter capire cosa stava movimentando il mondo dei libri

L’articolo di ARTURO GUASTELLA

MANDURIA, LA BELLA CITTADINA messapico-barocca, al limine della provincia ionica e del Salento, non è solo la patria del vino “primitivo” che porta il suo nome, o la città dove Bruno Vespa ha investito i suoi «sudati risparmi» (sic!), per comprarsi una masseria con tanto di vigneto. È anche, e soprattutto, la città di un editore che, negli anni del dopoguerra e per tutto il Novecento, divenne punto di riferimento della cultura laica italiana: dalla letteratura, alla storia, dalla poesia alla saggistica, dalla storiografia, al meridionalismo più avvertito e mai piagnone. Qualche nome di quel Pantheon, che aveva punti di riferimento la Protesta Laica e il Circolo Francesco De Sanctis: Benedetto Croce, Gabriele Pepe, Gaetano Salvemini, Luigi Russo, Vittore Fiore, Fabrizio Canfora (il papà del grande filologo antico, Luciano), Piero Gobetti, Mario Sansone, Ferruccio Ulivi, Vittorio Bodini, Pietro Nenni, e Labriola e Salvatore Quasimodo e tantissimi altri, fino a Norberto Bobbio. Il quale nel 1961, volle venire a vedere di persona, come era stato possibile, che tra le possenti, ma immote, «mura messapiche», potesse essere fiorito un movimento letterario, da pervadere la penisola tutta e che aveva, ad appena un centinaio di chilometri di distanza, un esempio ancora più pregnante nella casa editrice Laterza.

Una storia quasi comune, quella della “grande” casa editrice fondata da Giovanni Laterza, e quella della sorella minore di Manduria, in quanto, per entrambe le “fabbriche del libro” pugliesi, c’era stato, quale nume tutelare, il grandissimo filosofo di Pescasseroli. Quel Benedetto Croce, che nei suoi incontri con il giovane Lacaita – allora ancora studente di Giurisprudenza a Bari (prenderà la laurea di lì a poco), saputa della sua fermissima  intenzione di fare l’editore – gli indicò la strada, difficile, di una editoria attenta ai valori laici, ma rispettosa anche di quelli cattolici (beninteso, non di quelli curiali), e mai dottrinali, ma sempre aperti al confronto. Ed, allora, ecco che il giovane Lacaita, in quell’Italia disastrata del dopoguerra, trova il suo «editore ideale», in Piero Gobetti, e il suo «credo politico» nell’idea socialista e libertaria, in quel tempo in odore di eresia. Ed eretico dovette considerarlo l’arciprete di San Giorgio Ionico, che addirittura si era rifiutato di celebrare le nozze, nella cattedrale, con la bellissima Ada Cosenza, figlia di un avvocato, anch’egli in odore di zolfo, e che il nostro giovane editore aveva conosciuto in occasione di un infuocato comizio nell’agorà del paesino albanese.

«Eppure – ebbe a raccontarmi lo stesso Piero – l’amore per la carta stampata l’ho sicuramente ereditata non tanto da mio padre, ma da suo fratello, mio zio Piero Lacaita, prete libertario, morto appena quarantenne, che aveva acquistato un numero enorme di macchine tipografiche, quasi a volerci indicare il sentiero da percorrere». L’arciprete ponziopilato, alle rimostranze dei Lacaita e dei Cosenza, se ne lavò le mani e  disse loro di rivolgersi al vescovo del tempo, un altro gigante della tonaca, l’indimenticabile Don Guglielmo Motolese. «Quando gli raccontammo l’accaduto, Don Guglielmo, dopo averci per qualche minuto fissato negli occhi, fece chiamare l’arciprete, e gli suggerì con piglio deciso di celebrare immediatamente le nozze». Certo in quell’Italia della fine degli anni ’40 e per il terzo quarto del secolo scorso, la contrapposizione tra clericalismo e laicità dello Stato era davvero al calor bianco, tanto che chi si batteva per la scuola pubblica, per fare un solo esempio, era considerato, da larghi settori della curia, come un avversario diretto della Chiesa. «In quel periodo travagliato della nostra storia – mi raccontò – pur nella convinzione che un giorno gli Dei della libertà sarebbero tornati ad abitare il nostro paese, mi assillava il dubbio che forse avessero definitivamente abbandonato la scena». Lo stesso dubbio, nei fatti, di Benedetto Croce, che lo aveva affidato al saggio sull’Anticristo. E, ai Taccuini, le sue amare riflessioni sul grande vuoto che il secolo ventesimo aveva scavato nelle coscienze, ipotizzando come il mondo richiedesse di «essere pensato nuovamente».

Raccontare dei libri e dei saggi che in oltre tre quarti di secolo la casa editrice Lacaita, ha stampato sarebbe un fatica improba per il vostro attempato cronista: mi stancherei soltanto ad elencarne una buona metà. Mi basta ricordare che per le macchine tipografiche dello zio prete, sono passati autori, storici, poeti, politici e letterati, includendo nomi come Sandro Pertini, Giovanni Spadolini, Gaetano Salvemini, Gaetano Arfè, Tamburrano,Beniamino Finocchiaro, Aldo Capitini, Vittore Fiore, Rocco Scotellaro, Pietro Nenni, Lelio Basso, eccetera, eccetera. Ma l’inizio di tutto? Ebbi l’impudenza di chiedergli. «Era il 1948 – prese a raccontarmi – e organizzai insieme ai miei fratelli al cinema Fusco di Taranto, un convegno sul tema Protesta Laica, che poi sarebbe diventato non solo il titolo di una fortunata collana editoriale, ma l’autentico motivo conduttore di un’azione politica durata quasi cinquant’anni. In quell’occasione invitammo il grande medievista Gabriele Pepe, che affascinò talmente l’uditorio e spezzò, per noi giovani universitari e neo laureati, il pane di una dottrina laica che ci rimase impressa nell’anima». Piero Lacaita, sempre fedele alla sua visione socialista della politica, fu per ben due volte sindaco di Manduria. Andava orgoglioso di quella frase di Giovanni Spadolini, di come, cioè, l’azione di quella casa editrice, fosse stata «capace di spezzare le mura delle discriminazioni e degli interdetti, facendo circolare il nome di questo editore negli ambienti della cultura italiana di ispirazione ereticale e dissidente dall’inizio degli anni cinquanta». Aveva anche una laurea honoris causa in lettere, conferitagli dall’Università del Salento e della quale andava fiero.

E a proposito di storiografia locale e del prolificarsi di scritti storici da strapaese, ebbe a citarmi un pensiero di Rosario Romeo, l’identico pensiero che ho ritrovato in saggio sulle «contraddizioni della storia», di un’altra eccelsa tonaca, Cosimo Damiano Fonseca, che, del resto, era suo amico: «non ho alcuna preclusione – ebbe a dire il grande storico di Giarre – nemmeno nei riguardi di una storia dell’abbigliamento, ma a condizione che mi si spiegassero cosa avessero a che fare certe mode con gli aspetti della vita che veramente hanno contato nei singoli momenti della Storia». Come dire, insomma, che bisogna fare una scelta degli argomenti che hanno un certa valenza storica, da altri che non hanno un nesso significativo per la comprensione dell’insieme. Piero Lacaita, se n’è andato qualche anno fa, e, sono certo che anch’egli, nell’attimo fatale, abbia avuto in mente le parole di Benedetto Croce, che egli aveva sussurrato all’amatissima moglie Ada, prima che abbandonasse questa vita. «Per malinconica e triste che possa sembrarci la morte, sarebbe terribile se l’uomo non potesse morire mai, chiuso nel carcere della vita, a ripetere sempre lo stesso ritmo vitale. La morte sopravverrà a metterci a riposo, a toglierci dalle mani il compito cui attendevamo, ma essa non può far altro che interromperci, come noi non possiamo fare altro che lasciarci interrompere, perché in ozio stupido essa non ci può trovare». © RIPRODUZIONE RISERVATA

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