Sulla soglia del Palazzo di Agamennone, con Schliemann, Pausania e un sorso del Retsina di Ippocrate

“Mi dicono che tu scrivi, ed allora vieni con me, saliamo in cima al palazzo, dove, appena scoperta Micene e i suoi tesori, accesi un ampio fuoco per impedire il saccheggio dei tesori che avevo portato alla luce”: s’era rivolto così al vostro intrepido cronista il grande Heinrich Schliemann, accompagnato dalla sua seconda moglie greca, la bellissima Sophia Engastromenou e dai loro due figlioletti, Andromaca e Agamennone. “Qui — prendi nota — per la prima volta dalla conquista degli Argivi nel 468 avanti Cristo, cioè per la prima volta dopo 2344 anni, l’Acropoli di Micene ha nuovamente una guarnigione, i cui fuochi di bivacco la notte fanno pensare alle sentinelle che erano qui disposte per annunciare il ritorno di Agamennone da Troia e al segnale che avvertì Clitemnestra e il suo amante dell’avvicinarsi del marito…”
Il racconto di ARTURO GUASTELLA, nostro inviato nella Magna Grecia
GRECIA CONTINENTALE E Magna Grecia sono legate da un filo di Arianna, che si srotola lungo millenni e che risale quasi sicuramente agli inizi del terzo millennio avanti Cristo, quando i marinai del periodo minoico-miceneo, sfidarono i marosi dello Ionio e approdarono lungo le coste dell’Italia meridionale. Prima, per crearvi degli “Empori” dove commerciavano i prodotti della loro patria, scambiandoli con i minerali che erano rari nella loro terra (ossidiana e allume). E, poi, aprendo le rotte a quella colonizzazione che interessò gran parte dell’Italia meridionale, della Sicilia, della Liguria, della Corsica e anche della Spagna. Ora il vostro intrepido cronista ha deciso di fare un viaggio a ritroso, e, partendo da una apoikia (colonia) achea, vuole visitare quei luoghi, quella regione, il Peloponneso, i cui abitanti, gli Achei omerici, fondarono le colonie di Sibari, Crotone, Caulonia, Metaponto, Poseidonia, Locri, Taranto e, in Sicilia, Siracusa, Megara Hyblaea, Gela, Agrigento, Selinunte e le relative subcolonie.
Traghetto a Brindisi, sbarco a Patrasso (capoluogo, per l’appunto dell’Acaia) e poi, in viaggio fino al Golfo dell’Argolide, con tappa finale, non nell’antica capitale della Grecia, Nafplio — colonizzata a sua volta dai Veneziani che ne influenzarono grandemente l’architettura, con una stele raffigurante il Leone di San Marco, che fa bella mostra di sé nell’agorà principale della città (piazza Omonia) —, quanto in un paesino rivierasco, Tolo, letteralmente sospeso sull’Egeo. Qui, e ormai non dovreste più meravigliarvi, ho preso appuntamento con uno storico e geografo antico, Pausania il Periegeta (II sec. dopo Cristo), che, come più tardi Strabone, aveva girato in lungo e largo la Grecia, lasciandoci preziosissime testimonianze dei monumenti che aveva visto di persona.
Perché proprio Tolo, un villaggio di pescatori che in inverno conta meno di mille abitanti? Intanto perché ha grandi affinità con Minoici e Micenei, in quanto la gran parte dei suoi abitanti proviene da Creta (dall’isola di Minosse), e lo testimonia la desinenza in “akis” dei loro cognomi (e sono tanti i ristoranti e gli alberghi, che mostrano l’insegna di un bel paio di corna, come quelle del Minotauro), e, poi, perché, solo a qualche decina di chilometri, sorge Micene. “E non è tutto — mi fa notare il Periegeta — perché il villaggio è quasi attaccato ad Asini, da dove, come racconta Omero nell’Iliade (II libro, Catalogo delle Navi), partirono ben 22 navi, assieme ad altre cento triremi, agli ordini del gran re, Agamennone e, ancora vicinissimo a Tirinto (il cui re, Euristeo, costò le fatiche ad Herakles) ad Argo, Epidauro, Orcomeno e…”. Mi sono sentito maleducato, ma ho dovuto stoppare Pausania, per non sentirmi elencare un’altra sfilza di città omeriche. Sorride, però, il Periegeta, pregustando, forse, quello che mi sarebbe capitato più tardi, varcata la Porta dei Leoni di Micene.
Prima, tuttavia, di entrare nel Palazzo di Agamennone e di Clitemnestra, o di entrare nel tempio-ospedale di Esculapio a Epidauro, o nel suo teatro straordinario, un cenno al villaggio scelto come nostro “attendamento”. Qui, quando spira il Meltemi e increspa l’Egeo, dalle onde sembra sorgere, per sortilegio, una piccola isola, a neanche un centinaio di metri dal villaggio, il cui nome, Koronis, affonda nel mito. Nella Teogonia di Esiodo Koronis era una principessa bellissima, figlia di Flegia, re dei Lapiti, della quale si era innamorato Apollo. Dalla loro unione, fu concepito proprio Asclepio, il cui santuario si trova a qualche chilometro di distanza. Solo che la ragazza, mentre era ancora incinta, tradì l’algido nume con il giovane Ischys, per cui Apollo incaricò la sorella Artemide, di bruciarla viva. Poi, però, egli stesso salvò dal rogo il neonato e lo portò sul monte Pelio, affidandolo al centauro Chirone (Pindaro, Pitica III). “La tradizione di Epidauro — interviene Pausania — racconta proprio di questo. E di Koronis io stesso ne ho sentito raccontare dai sacerdoti del tempio di Asclepio, avendo avuto notizia di questo mito dal Peana di Isillo” (Pausania, II, 26, 4). “Febo — continua il Periegeta — ancora innamorato di Koronis, fece sorgere intorno all’isoletta, quasi come una corona, le isole di Romvi, Platià e Psilì, dove però non ho potuto trovare tracce di santuari dedicati alla principessa lapita”.
Un altro passo nel mito, e dopo aver ammirato la possanza delle mura ciclopiche di Tirinto, il cammino per il regno di Agamennone è brevissimo. Prima di inerpicarci nel palazzo reale, una targa stradale ci informa che nei pressi sorge Nemea, quella del leone eracleo e, più in là, il laghetto di Lerna. Senza Idra, però. Ed ecco, appena sorpassato il monumento funerario di Atreo, venirci incontro un bell’uomo dai baffetti malandrini e dal sorriso lievemente ironico. Egli, ignorandomi del tutto, si rivolge al Periegeta. “Te lo raccomando il tuo collega geografo Strabone, il quale aveva scritto come ormai Micene non esistesse più, facendomi ritenere che, a differenza tua, egli non sia mai stato qui”. “Altrimenti — continua — avrebbe menzionato le rovine e la cittadella, la porta dei due leoni, il tesoro di Atreo e dei suoi figli, le tombe di Atreo, dei compagni di Agamennone, uccisi da Egisto, di Cassandra, dello stesso Agamennone, dell’auriga Euromedonte, dei figli di Cassandra, di Elettra, di Egisto e di Clitennestra”. (Schliemann, in La scoperta di Troia, di Wieland Schimied, pag. 323). Già, è proprio lui. Heinrich Schliemann, accompagnato, nella circostanza, dalla sua seconda moglie greca, la bellissima Sophia Engastromenou e dai loro due figlioletti, Andromaca e Agamennone.
Poi, rivolgendosi al vostro cronista, che, emozionato si celava dietro al Periegeta: “mi dicono che tu scrivi, ed allora, vieni con me, saliamo in cima al palazzo, dove, appena scoperta Micene e i suoi tesori, accesi un ampio fuoco per impedire il saccheggio dei tesori che avevo portato alla luce”. “Qui — prendi nota — per la prima volta dalla conquista degli Argivi nel 468 avanti Cristo, cioè per la prima volta dopo 2344 anni, l’Acropoli di Micene ha nuovamente una guarnigione, i cui fuochi di bivacco la notte sono visibili in tutta la pianura di Argo e fanno pensare alle sentinelle che erano qui disposte per annunciare il ritorno di Agamennone da Troia e al segnale che avvertì Clitemnestra e il suo amante dell’avvicinarsi del marito…” (op.citata, XVI). Poi, rivolgendosi a Pausania, la cui “Periegesis” aveva certamente imparata a memoria: “In quel villaggio cretese dove avete preso dimora, c’è una taverna, Romvi, mi pare si chiami, dove servono purissimo il vino di Ippocrate, bevetene a sazietà, come non ho mancato di fare io e i miei operai”. Il vino di Ippocrate? Chiesi a Pausania. “E il vino aromatizzato con la resina del pino d’Aleppo, la Retsina, che dicono sia stata una ricetta del grande medico. Possibile che non l’hai mai assaggiato?”. E voi? © RIPRODUZIONE RISERVATA
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