Salvare il codice genetico dei grandi alberi. Tra meteo impazzito e caldo, una risorsa anti-disastro
Le alluvioni in Romagna, soprattutto la seconda a metà maggio, hanno provocato danni enormi e anche la perdita di vite umane. Non si poteva evitare la tempesta, ma – concordano più o meno tutti – si poteva fare qualcosa prima per evitare un bilancio così tragico. Tra i “guardiani” che in questi eccessi del tempo ci possono aiutare ci sono gli alberi, soprattutto quelli di grande fusto, i “patriarchi della natura”. Alberi che permettono alla terra di assorbire la pioggia e di “metterla al sicuro” nelle falde acquifere. Ma alcuni vecchi alberi rischiano di scomparire per il mutamento del clima. Ed ecco che un’associazione si è impegnata a salvarne ill corredo genetico
L’analisi di SERGIO GUIDI
CHE IL CLIMA stia cambiando ad una velocità maggiore del solito è cosa ormai nota. Sulle cause non tutti sono d’accordo ma le attività dell’uomo sempre più impattanti sull’ambiente, e il consumo di energie fossili hanno favorito questo processo che si manifesta con lunghi periodi di siccità e temperature elevate che creano seri danni all’uomo e all’ambiente. La siccità sarà sempre più un grave problema e favorirà ancora di più il fenomeno delle migrazioni che è già in atto e non possiamo arrestare. Ma la siccità e le temperature elevate influenzano fortemente anche l’ambiente, la vegetazione e gli animali. Infatti il cambiamento del clima e la biodiversità sono strettamente connessi.
La natura, e in particolare le piante, soffrono i lunghi periodi di siccità, diminuendo la loro attività vegetativa. Se la situazione si protrae a lungo possiamo avere persino la morte dell’albero. Spesso la siccità – come abbiamo detto – è accompagnata da temperature elevate che riducono l’attività di fotosintesi, fino quasi ad arrestarsi oltre i 40 gradi centigradi. Poiché il processo fotosintetico delle piante è l’unico capace di produrre sostanza organica partendo da elementi inorganici, col crescente riscaldamento a livello globale si ridurrà la produzione di biomassa, cosa che invece dovrebbe aumentare se vogliamo fissare più carbonio e liberare meno CO2 nell’atmosfera.
Per quanto riguarda le piante di interesse agrario, che sono poi le più nobili in quanto ci forniscono di che nutrirci, la siccità diventa un fattore limitante. Sappiamo bene che in futuro certe colture irrigue non potranno più essere attuate in quanto l’acqua sarà sempre più preziosa; parliamo del kiwi che in Romagna ha avuto una diffusione notevole ma ha favorito l’impoverimento idrico dei fiumi, con ripercussioni anche sulla fauna d’acqua. Siamo arrivati al punto di irrigare pure l’olivo semplicemente per ottenere una produzione più elevata in peso, non certo in qualità, anche se questa specie è estremamente resistente alla siccità.
Altro aspetto non secondario è quello dell’innalzamento medio delle temperature a livello globale; le piante in genere hanno bisogno di un certo numero di ore di freddo durante la stagione invernale per poter differenziare in modo corretto le loro gemme e prepararsi per la stagione vegetativa. Se gli inverni sono sempre più miti e le piante da frutto non raggiungono le ore di freddo necessarie avremo problemi nella fase vegetativa e di conseguenza anche sulla produzione. Possiamo pertanto immaginare quali saranno le piante da frutto coltivate in futuro? Certamente quelle che hanno bisogno di meno ore di freddo, e cioè quelle che vengono coltivate nelle zone più calde del Sud.
Sarebbe pertanto molto importante recuperare il germoplasma degli esemplari più rustici e longevi che ancora sopravvivono in Sicilia, Calabria, Sardegna. Invece gran parte di questi patriarchi fruttiferi sono ad elevato rischio di estinzione perché sono situati in aziende di proprietà di coltivatori anziani, magari senza eredi interessati a conservare il lavoro dei padri.
Il clima che cambia ha già portato all’aumento di eventi estremi come trombe d’aria e alluvioni, e questo è un serio problema in un Paese geologicamente giovane e fragile dal punto di vista idrogeologico come l’Italia. Nell’alluvione che ha colpito la Romagna a metà maggio di quest’anno, tanta pioggia in così poco tempo non si era mai vista: fiumi in piena straripati, argini rotti, hanno creato allagamenti nelle cittadine vicine che hanno avuto per giorni l’acqua fino ai primi piani delle case.
I danni sono ingenti e difficili da quantificare, ma soprattutto i morti sono un danno incolmabile. Ci sono responsabilità? Nel nostro Paese, bravissimo nelle emergenze, molto meno nella prevenzione, ora si cercano responsabilità politiche, ma in realtà l’uomo avrebbe potuto fare davvero tanto, non per evitare ma per ridimensionare di molto i danni dell’alluvione. Se fosse stata fatta la regimazione dei fossi in montagna, con una manutenzione efficace del territorio; se fossero stati piantati gli alberi giusti nei posti giusti seguendoli e curandoli nei primi anni di crescita; se fossero state realizzate le casse di espansione dei vari fiumi, probabilmente ci sarebbero state tracimazioni più contenute e oggi conteremmo molti meno danni e perdite di vite umane.
Invece, oltre ai danni alle persone e alle cose, gli allagamenti dei campi coltivati per più giorni hanno causato l’asfissia radicale e purtroppo molte colture non solo non produrranno, ma dovranno essere estirpate per poi ripiantare nuovi frutteti a costi elevatissimi. La cosa che più fa arrabbiare è che quell’enorme massa d’acqua caduta in poco tempo, creando un grande disastro, inondando case e terreni, se fosse stata regimata e fatta assorbire dal terreno sarebbe stata una risorsa preziosissima rimpinguando le falde acquifere sempre più basse quando questa estate probabilmente soffriremo la siccità.
Invece l’uomo, cementificando in modo continuo la pianura, abbandonando i terreni di collina e montagna, favorendo la formazione dei calanchi, ha impoverito i terreni di sostanza organica (che trattiene l’acqua) attraverso l’agricoltura intensiva che rende i suoli poveri e impermeabili. Così ha favorito lo scorrere delle piogge che hanno ingrossato i fiumi e allagato le campagne. Dobbiamo tenere presente che la vera prevenzione idraulica contro le frane e gli allagamenti la si fa partendo dalla montagna perché poi i problemi a monte si riversano a valle.
Tornando agli alberi, sono le armature della terra e coi loro apparati radicali sono capaci di raggiungere anche i 30 metri di profondità consolidando grandi masse di terreno e riducendo così il rischio di frane e smottamenti. Se pensiamo che con l’alluvione di maggio si sono registrate oltre 280 frane in Emilia Romagna, di cui oltre un centinaio particolarmente importanti che hanno isolato la popolazione di vari paesi provocando gravissimi danni, ci rendiamo conto di quale ruolo abbiano i grandi alberi nella tutela dell’ambiente. Eppure, nonostante la crescente sensibilità dell’opinione pubblica verso il verde in genere, i nostri patriarchi della natura stanno morendo; alcuni esempi sono la quercia di Montecastelli nel comune di Premilcuore, caduta anni fa. Era tra le più grandi della sua regione. Il pero di San Paolo nelle Foreste Casentinesi, tra i più grandi e vecchi d’Italia, è alla fine dei suoi giorni.
In altre regioni sono morti giganti come la quercia Mazzocche e quella delle Streghe in Abruzzo, il re Fajone in Molise e il cerro di Amatrice nel Lazio. Nessuno si è preoccupato di salvarne il corredo genetico, nessuno tranne l’associazione Patriarchi della Natura che oggi dispone di una collezione nazionale coi figli e gemelli degli alberi monumentali più significativi d’Italia. Ma questo purtroppo sembra non interessare nessuno, neanche gli enti preposti per cui è logico provare una certa amarezza, soprattutto se pensiamo ai nostri figli e a chi verrà dopo di noi ai quali dovremmo lasciare un mondo migliore di come lo abbiamo trovato. © RIPRODUZIONE RISERVATA