Quello che i sondaggi non hanno detto sul centrosinistra, a cinque giorni dal voto

Alla vigilia delle elezioni, vi proponiamo una bussola per capire lo stato di salute della sinistra. E di come cambi il “centro” di gravità della politica italiana. I sondaggi sono ora silenziati perché non condizionino, ma chissà se può aver condizionato l’opinione pubblica l’aver accreditato da tempo il centrodestra di una netta vittoria. Ma il centrosinistra non è rappresentato solo dalla coalizione-galassia nel Pd. Ci sono anche i Cinque Stelle, e in qualche modo anche il Terzo Polo. In coalizione con il Pd ci sono i radicali diventati il gruppo-guida della lista Più Europa, i Verdi alleati con la Sinistra italiana, e infine i transfughi dei Cinque Stelle che hanno seguito Luigi Di Maio. Ma le divisioni incidono sui risultati ma non sulla massa potenziale dell’elettorato. Ed è questo che nei sondaggi è rimasto sotto traccia
L’analisi di FABIO MORABITO
I PARTITI PRENDONO molto sul serio i sondaggi, ed è in base ai sondaggi che si fanno scelte importanti. A cominciare dalle candidature per i collegi uninominali, dove nel centrodestra Fratelli d’Italia — indicato da tempo in testa ai consensi — ha avuto una quota più importante dei partiti alleati. E invece se il criterio di ripartizione fosse stato quello dei risultati precedenti, il partito di Giorgia Meloni (4,3% alle politiche del 2018) avrebbe avuto uno spazio residuale.
Eppure i sondaggi, la cui diffusione è vietata in prossimità delle elezioni per non condizionare il voto (anche se continuano — segretamente — ad essere fatti) esprimono delle tendenze che però riguardano solo chi ha già deciso, e il dato comunicato è al netto non solo delle astensioni — e questo si sa — ma anche dell’eventuale rinuncia al voto decisa successivamente.
I sondaggi sono ora silenziati perché non condizionino, ma chissà se può aver condizionato l’opinione pubblica l’aver accreditato da tempo il centrodestra di una netta vittoria. I numeri comunicati sono quelli, lo schema scelto è probabilmente la sintesi preferibile: non solo vengono indicate le preferenze in percentuale per i singoli partiti, ma anche apparentandoli per coalizione. È però la conclusione, così come è stata quasi sempre suggerita, ad essere fuorviante. Infatti, il confronto viene fatto tra le due coalizioni, centrodestra e centrosinistra, rimarcando come la “forchetta” tra i due risultati sia sempre stata molto alta: ed è questo dato che ha dominato nei titoli dei giornali. Ma il centrosinistra non è rappresentato solo dalla coalizione-galassia nel Pd. Ci sono anche i Cinque Stelle, e in qualche modo anche il Terzo Polo, che secondo alcuni guarda con insistenza alla destra moderata, ma che è comunque formato dai due partiti di due ex-esponenti del Pd: Carlo Calenda leader di Azione, e Matteo Renzi (che del Pd è stato segretario, e da segretario del Pd è stato primo ministro), con il suo Italia Viva.
Azione, poi, un’intesa per far parte della coalizione del centrosinistra l’aveva trovata. E Italia Viva l’avrebbe voluta. C’è quindi un blocco che raccoglie quasi tutte le forze d’area di destra e centrodestra (di peso e fuori dalla coalizione, rimane solo Italexit, la lista fondata da Gianluigi Paragone) che andrebbe contrapposto alla somma delle altre forze riconducibili all’area del centrosinistra, perché ne fanno riferimento oppure perché ne traggono origine. Tanto è vero che il segretario del Pd Enrico Letta, che non ha voluto i Cinque Stelle in coalizione, ha ammesso di guardare al Movimento come ritrovato alleato di governo, se i numeri lo dovessero permettere. È vero che Giuseppe Conte, l’ex due volte primo ministro che ha preso le redini del Movimento, ha ribattuto di non volere accordi «con questi vertici del Pd», ma questo è solo un modo di auspicare un cambio alla guida dei Democratici.
In coalizione con il Pd ci sono i radicali diventati il gruppo-guida della lista Più Europa, i Verdi alleati con la Sinistra italiana, e infine — umiliati dai sondaggi — i transfughi dei Cinque Stelle che hanno seguito Luigi Di Maio. Oltre ai Cinque Stelle e alla lista Calenda-Renzi che si è autodefinita “Terzo polo”, è in corsa la sinistra che si è aggregata in “Unione Popolare”, guidata dall’ex sindaco di Napoli Luigi De Magistris, e di cui fanno parte anche due realtà con un seguito piccolo ma ormai strutturato e presente in tutta Italia, come Rifondazione Comunista e Potere al Popolo. Non partiti ad personam, come l’Impegno civico di Luigi Di Maio, piuttosto realtà diffuse anche se piccole. Mentre Antonio Ingroia, ex magistrato che era stato alla guida del cartello di sinistra “Rivoluzione civile” nel 2013, ora ci riprova con una lista che guarda con attenzione agli insofferenti del Green pass, “Italia sovrana e popolare”, un gruppo di cui fa parte anche il Partito comunista di Marco Rizzo.
Ma tutte queste realtà, a cominciare dal Terzo Polo ai Cinque Stelle fino alla lista di Ingroia, possono essere tutte definite di sinistra o di centrosinistra? Ci sono buoni motivi per sostenerlo così come per dubitarne, ma certamente l’area in cui si muovono non è quella di Giorgia Meloni.
C’è evidente malcontento in parte del Pd per il rifiuto, da parte del segretario Letta, di tentare un’alleanza elettorale con i Cinque Stelle, accusati di non aver voluto confermare la fiducia al governo larghe-intese guidato da Mario Draghi (personalità di grande prestigio internazionale, ma che è difficile definire di centrosinistra). E naturalmente può apparire una contraddizione allearsi invece con la Sinistra italiana che a Draghi la fiducia non l’ha mai concessa. Ogni spiegazione è possibile, come è possibile — forse probabile — che le ragioni della mancata intesa siano altre e trovino giustificazione in una legge elettorale piena di paletti.
La legge stabilisce che i “satelliti” nelle coalizioni, qualora prendano più voti dell’1% e meno del 3%, facciano confluire le loro preferenze nei partiti dell’alleanza che superano il quorum. Se nell’alleanza definita di centrosinistra solo il Pd superasse lo sbarramento, potrebbe trovarsi in dote decine di seggi inaspettati. È una legge elettorale che infatti può consentire sorprese, perché il primo partito come numero di eletti potrebbe non essere quello che ottiene più voti, ma quello che appunto è stato capace di ridurre i suoi alleati a donatori di suffragi. C’è poi la partita degli uninominali, e soprattutto al Sud il Pd rischia di rimpiangere amaramente la mancata alleanza con i Cinque stelle: agli uninominali si vince anche con un solo voto in più rispetto ai competitori, e quindi la scelta di presentarsi in coalizione può essere decisiva.
Fatto è che i Cinque Stelle, che hanno sempre giocato sulla non classificabilità del loro progetto tra destra e sinistra, sono inquadrabili nell’area del centrosinistra. Nel 2018, prima dell’alleanza di governo con la Lega, tentarono l’intesa con il Pd, ma fu Matteo Renzi, che del Pd era allora il leader di fatto, a non volerla. Stefano Fassina, deputato di Liberi e uguali, che non si è ripresentato a questa tornata — e ciò lo rende osservatore più affidabile — è da tempo che ascrive i Cinque stelle alla sinistra (dall’approvazione Decreto dignità, almeno). Ma la sua personale investitura l’ha fatta qualche domenica fa, presente Giuseppe Conte: «Sinistra è chi sinistra fa», ha detto Fassina, parafrasando una famosa frase del film Forrest Gump («stupido è chi lo stupido fa»). Cioè: sono le cose che facciamo a dire cosa siamo.
Questa frase deve essere piaciuta molto a Conte, che appena una settimana dopo alla Festa del “Fatto quotidiano” a Roma, l’ha riproposta con una variante: «Progressista è chi progressista fa». Sembra quasi che Conte diffidi della definizione esplicita di sinistra, ma non per un pregiudizio, forse per il timore che sia una scelta che possa alienare le simpatie di un bacino elettorale che si presume ancora indifferenziato.
A conferma di questa collocazione, la sinistra radicale guidata da Luigi De Magistris guarda ai Cinque Stelle, e ha sperato in un’intesa di coalizione con il Movimento. Che invece, persa la sponda del Pd, non ha avuto dubbi nel correre da solo. Confidando nei sondaggi, che al Sud descrivono una realtà diversa dalle medie nazionali, e quindi con la fiducia di conquistare — anche da soli — diversi seggi uninominali.
Questo anche se la legge elettorale in vigore, chiamata Rosatellum dal suo ideatore, Ettore Rosato (all’epoca parlamentare Pd, poi Italia Viva), era pensata in modo evidente per penalizzare i Cinque Stelle in corsa da soli (allora però per propria scelta). Mentre le quote minime in percentuale da raggiungere incoraggiano gli apparentamenti: il primato di assembramento (per usare un termine diventato abituale nei tempi della pandemia) è quello di “Noi moderati”, una lista nella coalizione del centrodestra formata da quattro partiti, di cui tre con il nome nel simbolo del loro primattore. Gli elettori che non hanno una vista perfetta dovranno usare la lente di ingrandimento per decifrarlo. Il senso di questo affollamento è che si tratta di realtà che da sole non ce la farebbero mai a raggiungere il 3 per cento dei consensi. Insieme, forse.
Ma se le liste del centrodestra tendono prevalentemente all’identificazione con il loro leader, Pd e Cinque Stelle si presentano senza nomi nel simbolo. La sinistra, poi, anche quando si raccoglie intorno a un nome (come è il caso di De Magistris, che guida il cartello “Unione Popolare”) rappresenta realtà molto frammentate ma che hanno una storia e un loro seguito anche militante. Potere al popolo si è consolidato già da qualche anno, su numeri molto piccoli ma con sostenitori non occasionali. Rifondazione comunista, il partito che fu di Fausto Bertinotti, ora è guidato da Maurizio Acerbo, vent’anni fa consigliere comunale a Pescara, eletto nella sua città sotto la stessa bandiera rossa con la falce e il martello. La storia dei due gruppi è molto diversa, ma da tempo facilmente convergono. Rifondazione è partito storico nato dalla costola di sinistra del Partito comunista italiano quando questo ha cominciato il suo faticoso viaggio verso l’identità attuale (Partito democratico). Potere al popolo è invece filiazione di un centro sociale napoletano, “Je so pazzo”.
La sinistra si unisce e si divide, ha sempre la volontà di aggregarsi, di fare forza comune, per poi dividersi nuovamente. Il cartello Liberi e Uguali, una volta che Matteo Renzi ha lasciato il Pd (partito che in dissenso da lui aveva visto molte importanti uscite) ha concluso la sua ragion d’essere. E ora i suoi nomi di punta si dividono tra Pd e Sinistra italiana (guidato da Nicola Fratoianni, che era anche alla guida con Nicki Vendola del progetto Sinistra ecologia e libertà).
Sinistra italiana, nell’alleanza di opportunità con i Verdi, sembra aver trovato un approdo politico. Se poi dovesse diventare un’intesa strutturata questa sì che potrebbe essere una novità in un’area politica dove sono molti i motivi — a cominciare dalla rigidità ideologica — a rendere difficile una convivenza che aiuti a crescere da una parte come peso elettorale, dall’altra come punto di riferimento. Ma le divisioni, che nella sinistra, e in qualche modo nel centrosinistra, sono costanti, incidono sui risultati ma non sulla massa potenziale dell’elettorato. Ed è questo che nella lettura dei sondaggi è rimasto sotto traccia. Anche se poi in una politica “liquida” come l’attuale in Italia, le differenze tra destra e sinistra non sono superate ma potrebbero apparire confuse. Con alcuni percorsi che non temono l’originalità, come quello di un ex candidato alla segretaria del Pd, già deputato del Pd, Mario Adinolfi, che presenta questa volta una lista, “Alternativa per l’Italia”, alleandosi con Simone Di Stefano, l’ex leader dell’estrema destra di CasaPound. © RIPRODUZIONE RISERVATA