Quel treno nella notte per Benares via Lucknow, il plasmodio e l’antica “scienza” mistica

Il cielo era una cupola nera, convessa, trapuntata di piccole stelle. L’aeroporto di Nuova Dehli era ormai alle spalle, dall’aria condizionata della Pan Am all’immersione in quello che già alle cinque del mattino era un fluido viscoso e opprimente. Un topo si aggirava sul tappeto rosso di una delle salette “staff only” e un’enorme foglia appassita e arricciata si era rivelata un gigantesco innominabile insetto. Ma come era stato possibile che un medico militare, nell’India di sua Maestà l’Imperatrice, avesse scoperto come la zanzara traferisce la malaria agli uomini? Sì, il Nobel nel 1902 e tante onorificenze a seguire, ma una miseria di riferimenti scientifici se confrontati con quelli di Giovan Battista Grassi, che aveva avanzato un’ipotesi simile. Con minor fortuna. Ci doveva per forza essere entrato quel treno nella notte per Benares via Lucknow…
Il racconto di HERR K.
IL SOLE DEL 5 di agosto — “O Gorizia tu sei maledetta” — scioglieva l’asfalto del terrazzo mentre grondanti sudore a torso nudo cercavano di issare l’antenna per ricevere il segnale. E solo il “mago” delle radio libere di Roma era riuscito a procurare un’eccezionale valvola termoionica, e a installarla lì a Monte Cavo, per poter trasmettere con sufficiente potenza sull’area romana. “Radio Spazio Aperto” avrebbe potuto irradiare i suoi GR, la sua musica e, soprattutto, i suoi dibattiti e le sue riflessioni politiche. Lui e C. potevano partire tranquillamente per l’India. Sembrava una costante. Gli altri ci arrivavano vent’anni dopo il nucleo di intellettuali americani che faceva da apripista. Così era stato per Parigi negli anni 20, come testimoniava nella sua “versione” anche Barny, beneficiario, ormai alzheimeriano, di premurose masturbazioni da parte di una fan della sua prima moglie, una del “club” di cui sopra. Così per il Kilimanjaro negli anni ’40, Hemingway docet. Per l’India non ricordava bene, Allen Ginsberg e i suoi “Hare Krishna” negli anni ’60, ma l’importante era che ora ci stavano andando lui e C.
Il cielo era una cupola nera, convessa, trapuntata di piccole stelle. L’aeroporto di Nuova Dehli era ormai alle spalle, dall’aria condizionata della Pan Am all’immersione in quello che già alle cinque del mattino era un fluido viscoso e opprimente. Un topo si aggirava sul tappeto rosso di una delle salette “staff only” e un’enorme foglia appassita e arricciata si era rivelata un gigantesco innominabile insetto. Il branco del gruppo si era precipitato a bere e a riempire borracce dalle fontanelle nella hall centrale, ignari che a est di Brindisi o bevi acqua minerale o il tea da un samovar. La maledizione di Moctezuma li avrebbe colpiti, impietosa. Già, non solo a est di Brindisi.
Ora, su una di quelle “house boat” — grandi barconi da almeno due stanze doppie — che si affiancavano nella laguna di Srinagar stavano seduti in cerchio sulla tolda accogliente. Il narghilè passava da uno all’altro con profonde inspirazioni, il padrone dell’ostello l’aveva caricato con un mattoncino di “libanese” posto ad ardere direttamente sull’argentea piastrina traforata. Dopo una leggera ebbrezza era subentrata l’afasia, sentiva gli altri ma non riusciva ad aprire bocca come avrebbe voluto. Un altro paio di giri e, forse aveva ragione Benjamin, tutto si era decantato in una lucida empatia e aveva comunicato a C., accanto a lui: «Ci stiamo disancorando, la prua punta decisa al centro della cupola sopra di noi».
Su quella “jeep”, incrocio di pezzi russi e indiani e chissà altro, si erano auto-selezionati in sei. La strada di montagna nella quale si stavano inerpicando verso Leh, la “capitale” del Ladakh, scopriva, a sinistra, la vetta possente del Nanga Parbat e le nevi maestose del Karakorum, a destra, delle montagne dal colore delle Dolomiti ma rocciosamente più massicce. A fondovalle scorreva l’Indo, in mezzo a verdeggianti e strette bancate dove erano stese a essiccare albicocche e altri frutti. “La latitudine compensa l’altitudine”, aveva pensato. E, quanto all’altitudine, movimenti bruschi provocavano leggeri capogiri.
A Sonamarg, in un bel bosco, l’imbevibile tea con il grasso di yak in sospensione era stato compensato dal gentile invito di un mercante che, dietro la sua tenda, aveva preparato un ottimo gulash col chapati per raccogliere il sugo. E alla fine un buon fumo leggero, per lui e L., alla quale stava facendo una corte garbata ma inequivocabile. Davanti a quel panorama, uniti tutti e tre da una consapevolezza umana, aveva avuto senso la parola idillio. Se mai… Appena passato il confine col Kashmir avevano incontrato in un villaggio donne con delle lunghe fasce come copricapo, che dalla schiena risalivano alla fronte, a punta, e cariche di coralli e turchesi. La loro dote nuziale. Disgustosa la scena del branco, tutti, uomini e donne, con mani sventaglianti rupie per comprare quelle gemme. Dementi, illusi del “buon selvaggio”, le pagavano al prezzo che avrebbero poi trovato in una delle sei gioiellerie di Leh, unica cosa moderna di un borgo sdirupato. Così moderna che i prezzi erano sintonizzati con quelli di Londra e New York. Vagiti della globalizzazione.
La strada continuava a inerpicarsi — il passo Fatu La a 4000 metri e passa — e sempre più spesso dovevano farsi di lato per cedere spazio alle colonne militari indiane. Il confine era stato aperto da poco e in lontananza si sentivano, sfuocati, colpi di cannone. Zone contese con Pakistan e Cina. Andando verso le sue sorgenti l’Indo si faceva più stretto e turbolento, e, a guardar giù dal ponte di corde, quei vortici neri creavano suggestioni abissali.
Mentre si dirigevano a Lamayuru, nel cuore del “piccolo Tibet” indiano, era stata inevitabile una visita all’antico “gompa”, dove sul ballatoio esterno giravano, metallici, i rotoli di preghiera e da una finestra si potevano vedere i bonzi nelle tonache amaranto bordate di arancione intenti nelle loro preghiere, che alcuni approfondivano con vistose ricerche nelle narici. Il misticismo del buddismo Tantra aveva scatenato buona parte di quegli “sfranti”, come li chiamava con C., con piccole piramidi di legno sul petto a far convogliare flussi di energia positiva su qualche chakra mentre le voci salmodiavano “Om Mani Padme Hum”. Un paio erano ferventi seguaci di uno psicoanalista romano, che seguiva l’onda e propinava il rifiuto del transfert o qualche altra innovazione “rivoluzionaria”. Tutti motivi che avevano facilitato la felice separazione, dal grande autobus degli “sfranti”, dei sei che ogni mattina sul gippone “monstre” osservavano il rito dell’autista: un bidi fatto ardere sul largo pianale sopra il cruscotto, una propiziazione di constata efficacia.
A Leh l’avevano sistemato a valle del borgo sdirupato, e per due sere s’era arrampicato per oltre cento metri di dislivello per raggiungere l’alloggio di L. Carezze occhi negli occhi, ma a un certo punto calava una parete invalicabile. Non era una voluta strategia, era chiaro per lui, anche scontando il debito d’ossigeno per l’alta quota e la scalata fatta. Ma un improvviso riflesso, cui misteriosamente lei obbediva, a malincuore ma ostinata, e che non scalfiva l’interesse del respinto. Ignaro, allora, che di lì a non molti mesi…
Insieme a C. e L. avevano deciso di prolungare per il Nepal. Le trine di legno dei piani superiori delle case di Katmandu contrastavano con un paesaggio da quarto mondo, vie sporche — come a Roma, allora di meno che oggi — dove il ragazzino per strada ti apostrofava in italiano per offrirti i vari tipi di droga, LSD incluso. Meglio il “Monkey and the Moon”, dove si improvvisavano tavolate internazionali. E quel bel ragazzo inglese, naso dritto e baffi accennati, che era stato colto da pietà e gli aveva sottratto con mani gentili il “cannone” che stava cercando malamente di rollare, terminando lui il lavoro con veloce maestria.
Sui tamburi curvi delle pagode campeggiava un volto sereno e sorridente, forse un Buddha, come dipinto da un bravo ragazzetto delle medie. Così apparve loro a Bhagdaon, antica capitale imperiale, raggiunta in bicicletta con una rampa finale mortale, nella quale, giovani e forti, si erano sfidati lui e C. allo spasimo. E lui, volontà adamantina, l’aveva preceduto urlando trionfalmente il nome del loro gruppetto politico. Per fortuna era un bisillabo. La sera, nella squallida stanza da letto, gli effetti del “quintino” mischiati all’orrendo rum indiano si erano fatti sentire. Eccome! Dopo una fase di eccitazione motoria, le gambe ancora ripetendo le pedalate del giorno, era succeduta l’immobilità totale. E C. non aveva voluto confessare che stava rigido come uno stoccafisso, perché anche per lui una piccola rotazione sul fianco generava la consapevolezza che quello stupendo spettacolo di cristalli di topazio e di agata, come pendenti di fascinosi lampadari, sarebbe stato mantenuto solo a patto di sottomettersi all’oscuro e subdolo gestore dello spettacolo. Un’angosciosa scissione dell’io che si era protratta fino all’alba.
Nel lago di Pokhara si rispecchiavano, eterne, le quattro vette dell’Annapurna. Uno spettacolo unico che non scuoteva più di tanto la cinquantina di giovani, più o meno, radunati attorno al tempietto sulla riva del lago. L. aveva già dato prova del suo perfetto tonal facendosi un avanti e indietro tra le due sponde con bracciate misurate e efficaci. Ora, tutti e tre seduti per l’happy hour, potevano vedere una nuvola bianca di fumo che saliva lentamente ma costantemente dal tempietto. Non erano offerte votive.
Da Nuova Dehli per Varanasi, un po’ più di 700 km, 19 ore di treno. Erano rimasti soli lui e C., del tutto a loro agio in un grande scompartimento con cuccette. Avevano pagato anche le altre due, una comodità dal costo irrisorio. Le tonde barre di metallo davanti alla grande finestra orizzontale erano a tutela delle catenine o collane, ambite prede dei ragazzini dalit pronti a “punire” teste ciondolanti fuori dal finestrone. Fino ad allora tutto era andato alla grande, niente Moctezuma o altre infezioni, in una Old Dehli dove tra gli allineati in bianco lungo Chandni Chowk Road, uno su dieci veniva portato via per cessata esistenza. Neanche la malaria, in un Paese nel quale era endemica in molte aree.
Mezzo addormentato aveva aperto un occhio in tempo per vedere la ripartenza dalla stazione di Lucknow. Lo sferragliare e il rauco ululato del treno avevano evocato quel binario nella notte dove, quasi un secolo prima, era avvenuto lo “scambio”. A Lucknow, 1898. Si erano costituiti in un gruppo segreto per trarre da un’antica “scienza” mistica il percorso dell’immortalità, e stavano sperimentando il trasferimento dei propri cromosomi al corpo di un altro fino a diventare gradualmente quella persona. In una possibile catena senza fine. Avevano fornito indizi più che sufficienti perché Ronald Ross, il maggiore medico di sua Maestà, capisse come il plasmodio veniva trasferito dall’anofele all’uomo. La sua “scoperta” e le variazioni del parassita avrebbero rafforzato le loro ricerche.
Il treno aveva intanto ripreso la corsa nella notte. Come allora. La stazione di Varanasi li aveva accolti con una moltitudine di ragazzini con bici-risciò, ognuno per portare il turista in visita in uno dei quattrocento laboratori dove si tessevano preziose sete. Bui scantinati illuminati fiocamente, dove una maggioranza di indiani islamici era stata assoggettata a un lavoro servile. Verso la cecità. Ma anche da ciechi continuavano a saper distinguere le migliaia di fili variegati da intrecciare nei telai.
La notte, lungo la sponda occidentale del Gange, ardevano inestinguibili tre colossali pire per la cremazione. Dei ricchi. Per i poveri, lo avevano visto il giorno dopo in barca lungo il fiume, un sacco di tela caricato di sassi. Ma i sassi spesso si sfilavano. Nei ghat, sulla sponda dalla parte della città, si addensavano miriadi di fedeli per i riti lustrali, in una delle quattro città sante degli indù. Dall’altra sponda stava avanzando veloce una spessa riga bianca, ma così lontana da non capire cosa fosse. Lo avevano capito i due ragazzetti che portavano la barca e che avevano subito remato verso la sponda vicina. Implacabile li aveva raggiunti la pioggia monsonica, e si erano afferrati al grande palo che emergeva dal fiume come una salvezza, spingendo in una lotta titanica la barca via dal gorgo, nero come l’Indo, e guadagnando la sponda mentre i ragazzetti remavano e pregavano.
Quel gorgo, come sorto improvviso da un mistero, lo aveva ricondotto, salvi a riva, alla leggenda della scoperta del plasmodio, della trasmissione all’uomo della malaria. Era stato consegnato proprio a Ross, quel Nobel del 1902? © RIPRODUZIONE RISERVATA
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