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Queer: la peregrinazione nell’indifferenza affettiva. Guadagnino esalta l’inquietudine nel testo di Burroughs

di Italia Libera   
Queer: la peregrinazione nell’indifferenza affettiva. Guadagnino esalta l’inquietudine nel testo di...

Presentato alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia, “Queer” è l’adattamento del celebre libro di William Burroughs al cinema dal 17 aprile. Dopo “Call Me by Your Name”, “Suspiria” e “Challengers”, il prolifico regista siciliano non ha più niente da dimostrare e dirige una storia sull’inquietudine con il suo, ormai distintivo, tocco personale. Daniel Craig veste i panni del protagonista Lee, donando la sua interpretazione più viscerale e carismatica. L’attore britannico irrompe e si prende la scena, calcando la mano sul bisogno di approvazione, in ogni languido sguardo racconta un ricercato abbandono nell’altro. Non è il primo libro adattato da una storia dello scrittore americano – David Cronenberg diresse nel 1991 “Il Pasto Nudo” – ma è l’opera che più lo celebra con intensa ammirazione

◆ La tensione di GIULIA FAZIO

Lee è un tossicomane omosessuale. Questo fa di lui un insicuro costantemente alla ricerca di qualcosa: oppio, un rapporto sessuale, un drink e, in fine, un contatto. Luca Guadagnino racconta di aver letto Queer a diciassette anni ed esserne rimasto folgorato: il libro in qualche modo lo aveva compreso. E forse anche William Burroughs si è compreso attraverso la sua stessa scrittura. Il romanzo nasce in seguito al funesto incidente che vide lo scrittore sparare in testa alla moglie nel settembre del 1951. La morte della moglie Joan è l’episodio mai narrato nel testo, ma sparso come la cenere dopo un incendio in aria, respirata e digerita, ormai parte dell’organismo. Guadagnino esalta questo ambiguo celare e lo racconta esplicitamente. 

Queer non è l’adattamento fedele del romanzo dello scrittore americano, ma un fedele omaggio alla grandiosa scrittura allucinatoria e inquieta di Burroughs. L’opera si apre presentando il suo protagonista come un uomo di mezza età alla continua ricerca di un bar a Città del Messico dove bere e incontrare qualcuno. Molti sono volti che Lee conosce già, pochi quelli ancora da “scoprire”. Tra quest’ultimi, Eugene Allerton, un giovane e bellissimo ragazzo ebreo, attira la sua attenzione. Lee sviluppa un’ossessione amorosa e carnale per Allerton e tenta goffamente di attirarlo a sé. 

L’ambientazione della ricerca affettiva di Lee è Città del Messico negli anni ‘50, che Guadagnino immagina come un teatro onirico e conturbante più simile a un set hollywoodiano che a un bassofondo sudicio e misero. Il regista sceglie di creare un’idea piuttosto che una città: neon illuminano le strade e le case di una luce artificiale e nostalgica, le persone che vi si muovono all’interno sembrano proiezioni dell’inconscio e gli abiti ostentano cura ed eleganza. Seppur esteso fino all’estremo della ricercatezza, l’elastico che tiene insieme tutti i pezzi che formano Queer, è ben tessuto: il peregrinaggio di Lee verso il riconoscimento e il contatto affettivo è circondato dal fascino delle inquadrature, illuminate come quadri di Hopper. L’approccio di Guadagnino tradisce un attaccamento romantico con la materia del racconto, ma tale risultato ispira in chi guarda una profonda connessione: quella che il suo protagonista cerca disperatamente. Lee è inquieto e disintegrato, goffo e dolce e Daniel Craig dona alla rappresentazione tutte le sfumature di un uomo alle prese con la propria dualità interiore e la ricerca febbrile dell’altro tipicamente universale. 

Queer è un’opera estremamente contemporanea perché racconta la sensazione di irrequietezza e apprensione provocata dal timore, dalla colpa e dall’incertezza. Burroughs la ricollegava al senso di colpa e alla possessione che gli fece compiere quell’atto fatale, Guadagnino, invece, all’adolescente che si sente differente e alieno in un mondo ostile, e di esso comunque affamato. Un giorno Lee conobbe Allerton, cercò l’astinenza, cercò lo yage – droga indigena che stimola la telepatia, la comunicazione non verbale tra individui – e finì per inciampare di nuovo in sé stesso e nelle solite abitudini. Perché la vita è circolare come la dipendenza: si scappa, ma non si riesce mai a fuggire da sé stessi. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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