Quanto ci costa l’avanzata del cemento. L’odissea delle leggi bloccate e dimenticate
Due metri quadrati di consumo di suolo al secondo. È l’impressionante numero che fotografa l’emergenza dell’Italia abusata, un ritmo di gran lunga superiore alla media europea. Ma l’Italia è un Paese geologicamente fragile, e il consumo del suolo – incentivato dalla speculazione – è una concausa dei disastri ambientali, delle emergenze provocate dal dissesto. Eppure leggi per frenare questo fenomeno di erosione di paesaggio, bellezza, e anche sicurezza ambientale, sono state pensate e preparate, per venire poi fermate e dimenticate. Ecco cosa è successo, e perché l’Italia ha assoluto bisogno di una legge di difesa del suolo
L’inchiesta di ANNA MARIA SERSALE
A QUANDO UNA LEGGE sulla difesa del suolo? Siamo uno dei pochi paesi europei a non averla. L’Italia è assediata dal cemento, ma il Parlamento (da anni) non riesce a varare una legge per fermare lo scempio. I tentativi fatti si sono arenati. E ora, con il governo di destra che vuole far ripartire le trivelle in Adriatico, non arrivano segnali incoraggianti Benché se ne discuta da oltre un decennio – invocando la necessità di dare tutela al suolo in quanto bene comune, risorsa fragile e non rinnovabile – le proposte di legge puntualmente si sono impantanate nelle sabbie mobili dei Palazzi. Eppure ci sarebbe bisogno di interventi urgenti. «In Italia il consumo di suolo corre a una velocità che supera i 2 metri quadrati al secondo, ovvero 19 ettari al giorno! Il valore più alto degli ultimi dieci anni», spiega Michele Munafò, ingegnere esperto di suolo dell’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale. In assenza di interventi il partito del cemento vince, al punto che il consumo di suolo non risparmia neppure i Parchi nazionali, che in dodici mesi hanno perduto 75 ettari, di cui 14 solo in Campania. In Italia si è costruito in zone ad alta pericolosità sismica e perfino sulle aree naturali di esondazione. Nel 2021 sono stati edificati 370 ettari su terreni franosi, di cui 78 a rischio elevato e 38 a rischio molto elevato. Cemento e asfalto ostruiscono dal 3 al 25 per cento delle sponde dei corsi d’acqua. Una follia Negli ultimi cinquant’anni la speculazione è proseguita indisturbata, inarrestabile. Da noi neppure il Covid è riuscito a fermarla, anzi. Sotto accusa oltre all’urbanizzazione incontrollata anche opere per mega infrastrutture e il boom della logistica legata al commercio digitale. Il 2021 è stato l’annus horribilis. Avere consumato suolo a 2 metri quadrati al secondo ha prodotto conseguenze gravissime: «In un solo anno sono stati raggiunti 70 km quadrati di nuove coperture artificiali da nord a sud – osserva ancora l’ingegner Munafò -. Il cemento ricopre ormai 21.500 km quadrati di suolo nazionale; di questi 5.400 (pari a un territorio grande quanto l’intera Liguria) riguardano i soli edifici, che sono il 25 per cento dell’intero suolo consumato». Tutto è documentato (e visionabile) sulle mappe dell’EcoAtlante dell’Ispra.
Da questo quadro emerge lo scarso interesse di una larga parte della politica al tema della difesa del territorio. Lo ha dimostrato anche l’ultima campagna elettorale in cui oltre a parlare poco di ambiente non è stata detta mezza parola sul consumo di suolo, perché toglie consenso e porta via voti. Così tra ipocrisia e disinformazione la transizione ecologica è finita in secondo piano. Anche durante il governo Draghi si è arenato un Ddl, il n.1992, che pure prometteva bene a cominciare dal titolo: “Disposizioni per l’arresto del consumo di suolo agricolo”. “Arresto”, un termine inequivocabile, non riduzione o contrasto o altre terminologie che poi lasciano spazi di manovra. L’iniziativa parlamentare (che rinviava ad altro testo la rigenerazione urbana) aveva come prima firmataria Elena Fattori del gruppo misto e tra i cofirmatari Loredana De Petris, Paola Nugnes e Gregorio De Falco. Quel Ddl, però, dopo avere incassato i sì delle Commissioni del Senato (agricoltura, territorio e beni ambientali) e i pareri favorevoli anche delle Commissioni affari costituzionali, bilancio, istruzione e questioni europee, non ce l’ha fatta ad approdare in Aula per il voto. Presentato il 28 ottobre del 2020, nel febbraio successivo assegnato alle Commissioni, quando a fine 2022 sembrava avvicinarsi al traguardo la crisi del governo Draghi gli ha tagliato le gambe. Ora il progetto giace in un cassetto. Sorte analoga a quella di altri Ddl. Alla Camera la deputata Cinque stelle Stefania Ascari il 25 ottobre scorso aveva presentato un disegno di legge che rilanciava in pieno il progetto del 2018 del Forum nazionale di “Salviamo il paesaggio”. Anche in questo caso l’obiettivo era chiarissimo. Il Ddl si intitolava: “Norme per l’arresto del consumo di suolo e per il riuso dei suoli urbanizzati”. Dunque, non semplicemente limitare o contenere. Alle spalle c’era il lavoro di un gruppo tecnico-scientifico di prim’ordine, composto da geologi, urbanisti, agronomi, giuristi, ricercatori universitari, ecc. I concetti chiave erano: «Riuso, riutilizzo, rigenerazione e riorganizzazione dell’esistente», con la precisa richiesta di fare «un censimento edilizio degli edifici e delle unità immobiliari pubbliche e private sfitte, non utilizzate o abbandonate».
Ma, come già accaduto nella precedente legislatura del Conte due, crisi e instabilità politica hanno bloccato tutto. Così gli sforzi fatti sul piano giuridico sono caduti nel vuoto, anche perché le regioni non sempre hanno dato il loro sostegno, restie a riconoscere la necessità di una legislazione nazionale in materia, chiara e vincolante per tutti. Un problema di cui nessuno parla. Dell’aggravarsi del dissesto idrogeologico la nostra classe politica pare accorgersi solo in occasione dei disastri. Vedi il caso Ischia, dove la tragedia di Casamicciola era ampiamente prevedibile. Incuria, crisi climatica e cemento sono stati una miscela esplosiva. Ettari di suolo naturale sfruttati, spariti, divorati dalle colate di calcestruzzo. L’ultima tragedia ne è la prova. L’isola, che ancora piange i suoi morti, è stata cementificata a ritmi frenetici. Tanto più grave su un territorio fragile e a rischio terremoto, che ha pagato da sempre un prezzo altissimo: dal 2010 a oggi più di 180 alluvioni e 148 morti per frane. Da quando si sono spente le luci dei riflettori, del sacco edilizio di Ischia che rovina bellezze naturali e provoca disastri nessuno parla, nonostante ci siano cifre agghiaccianti. Eccole: «A Ischia si è registrato un consumo di suolo di quindici ettari nell’arco degli ultimi quindici anni. In media diecimila metri quadrati l’anno di nuove costruzioni, di cui quasi un terzo situato in aree a rischio frana». I dati sono dell’Ispra, contenuti nel rapporto presentato non più di sette mesi fa. Nel nostro Paese non si tiene conto né dei limiti delle risorse, né dell’immenso valore del patrimonio naturale. Benché le conseguenze del sacco edilizio siano sotto gli occhi di tutti, in Italia è stato «cementato o asfaltato il 6,4 per cento delle aree a pericolosità idraulica molto elevata, nonché il 9,3 per cento di quelle a pericolosità media». Un esempio per tutti: in Liguria, territorio fragilissimo, è stato cementificato il 23 per cento delle aree a massimo rischio di straripamento fiumi.
Se spostiamo l’attenzione sui litorali, si scopre che a causa della costruzione di nuove strutture artificiali il Belpaese ha perso ogni anno 5 km di costa naturale nel corso degli ultimi venti anni. Dunque, sono spariti 100 km di costa naturale, l’equivalente di una località come Fregene. E mentre la legge salva suoli non decolla centinaia di ettari di nuovi fabbricati, capannoni, strade e infrastrutture di ogni tipo vengono edificati anche nelle aree a più alto rischio di alluvioni, frane e terremoti. Abbiamo consumato il 7,3% del suolo, il doppio della media Ue, e abbiamo quattordici milioni di edifici a rischio. Non solo. «Oltre otto milioni di persone – sottolinea l’ingegnere dell’Ispra Munafò – abitano nelle aree ad alta pericolosità e quasi il 94 per cento dei Comuni è a rischio dissesto ed erosione costiera dal momento che il livello dei mari avanza per il riscaldamento globale». Una tragica realtà su cui si chiude gli occhi, non una invenzione degli ambientalisti. Il sistema predatorio degli ultimi decenni ha fatto danni enormi. Infatti, il rischio idrogeologico è una delle più gravi emergenze ambientali ed economiche del nostro Paese. Tanto che l’Europa incalza con regole sempre più stringenti: dopo un primo step nel 2030 l’Ue raccomanda che «entro il 2050 l’incremento di occupazione di terreno sia pari allo zero». Tuttavia noi, senza neppure una normativa nazionale in materia, avendo un consumo di suolo che è il doppio della media Ue, siamo ben lontani dagli obiettivi del “Land degradation neutrality” prevista dall’Onu.
Conferme alla gravità della situazione vengono anche dall’Istat: «Nel nostro paese sono stati “mangiati” oltre 52 chilometri quadrati di territorio». La maglia nera va al Nord, dove per esempio la Lombardia da sola registra il 13,4 per cento della perdita totale di suolo, con oltre 3.000 chilometri quadrati di cementificazione. I movimenti ambientalisti in difesa della terra e del paesaggio, comunque, non mollano: promuovono iniziative, pungolano i partiti, gli enti locali, chiunque detenga il potere decisionale. Il suolo, che è fonte di cibo e riserva di biodiversità, insieme all’aria e all’acqua è un bene primario, tutelato dalla nostra Costituzione. E’ considerato risorsa non rinnovabile dal momento che occorrono tempi molto lunghi perché si rigeneri. Ma continua ad essere minacciato: erosione, contaminazione, cementificazione, perdita di biodiversità, salinizzazione, desertificazione, con conseguenti disastri per frane e alluvioni. Inoltre se si fanno due conti si scopre che il consumo di suolo ha un gigantesco costo economico che si abbatte sugli italiani. La stima fatta dall’Ispra è di otto miliardi di euro all’anno, che potrebbero arrivare a un costo complessivo tra i 78,4 e i 96,5 miliardi di euro, calcolando i danni nel periodo compreso tra il 2012 e il 2030, se la speculazione edilizia continuerà a divorare terra al ritmo di due mq al secondo tanto costerebbe all’Italia la perdita di forniture agricole e di servizi eco-sistemici. Nel calcolo l’Ispra ha tenuto conto anche dello stoccaggio di milioni di tonnellate di carbonio e milioni di metri cubi di acqua piovana che non trovando suolo libero scorrono in superficie aumentando la pericolosità idraulica. L’ammontare del danno economico sarebbe pari alla metà del Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Alla conclusione dell’ultimo summit sul clima a Sharm (dal 6 al 18 novembre 2022), come sempre, si ragiona sulle cifre del disastro ambientale, si discute dell’urgenza di azioni immediate per invertire tendenze che sono una minaccia per la vita del pianeta. Si discute di come rallentare il surriscaldamento causato dall’atmosfera carica di anidride carbonica. Ma poi, sia in Europa che in Italia, ci si adopera ben poco per cambiare quel futuro già scritto che mette paura. Al punto che da noi, per assenza di nuovi finanziamenti, è perfino a rischio il completamento della Carta geologica, fondamentale per conoscere suolo e sottosuolo, pianificare lo sviluppo sostenibile e mettere in sicurezza i territori cercando di evitare nuove tragedie. Alla Carta ci lavora l’Ispra, insieme a Regioni, Province, Università e Cnr. Il progetto, partito alla fine degli Anni ‘80, per colpa dei finanziamenti a singhiozzo è rimasto a metà: mancano 300 fogli geologici e quasi tutti i fogli geotematici. Se ci sarà la volontà politica di usarla e usarla bene, questa Carta, che non è solo una carta colorata, ma uno strumento essenziale di difesa e salvaguardia dell’intero territorio nazionale, potrebbe essere il punto di partenza per una legge salva-suoli, che insieme a una riforma urbanistica seria finalmente metta fine alle speculazioni. © RIPRODUZIONE RISERVATA