Primi taccuini: come Emiliani diventò giornalista. E gli amici rivali de “L’Espresso” e “Il Mondo”
L’inizio della carriera da giornalista di Vittorio Emiliani ha un prologo. All’esame di Quinta ginnasio portò un testo del 1835 di Alfred de Vigny, ufficiale e scrittore. Scelta originale (e premiata). Poi, all’Università cominciò ad affacciarsi in quello che sarebbe stato il suo mestiere della vita. Subito con soddisfazioni (l’inchiesta al fianco di Camilla Cederna). In questo amarcord l’atmosfera dei grandi giornali del tempo, con l’amicizia-rivalità tra Pannunzio (“Il Mondo”) e Benedetti (“L’Espresso”)
Il ricordo di VITTORIO EMILIANI
ALL’ESAME DI QUINTA GINNASIO stupii la commissione esaminatrice portando Servitude et grandeur militaires di Alfred de Vigny, che era stato ufficiale dei Gendarmi rossi, nella Francia della prima metà dell’Ottocento. Ebbi da Mario Roffi, insegnante assai bizzarro di francese, un voto alto. Lui arrivava, infischiandosi della disapprovazione del preside Chinarelli detto per la mole Chinarlon, su un bicicletta nera con incollati alcuni slogan come “lavoro ai disoccupati” o “pane ai lavoratori”.
Un giorno il preside mi trovò alla lavagna, dove, in assenza dell’insegnante di greco e latino Bortolotti (recidivo in materia e grande appassionato di trottatori che io stuzzicavo), stavo scrivendo un innocente “vorremmo andare a vedere il Giro d’Italia” che sarebbe passato dalla Zona Industriale alle 12 e 30. E subito mi espulse per 3 giorni senza scrivere nulla sul registro per cui mi feci tre giorni di vacanza autorizzati fra Sala Borsa dove giocavamo a boccette o dove assistevamo alle esibizioni di bravissimi giocatori di stecca.
Qualche volta andavo anche alla Biblioteca Ariostea a studiare letteratura italiana per la quale avevamo un pessimo insegnante, un certo Bonomo, che si rifaceva a testi stravecchi come il Pomponazzi. Mentre io già leggevo per Leopardi il saggio di De Robertis. Roffi dovevo incontrarlo più tardi alle votazioni del Premio Strega con gli altri amici ferraresi come Giovannelli o romanizzati come Frassineti, romagnolo di Castel bolognese, col quale scambiava messaggi irriferibili.
Gli anni del biciclon erano lontani e io mi ero brillantemente diplomato con due sette in matematica e fisica preparato dalla professoressa Brunè che aveva una figlia splendida, Bianca, la quale mi distraeva immancabilmente ogni volta che entrava per dire qualcosa alla madre. Alla Maturità avevo quindi fatto un figurone con questo doppio sette in Matematica e Fisica. Che il bidello, da noi chiamato per la sua minuscola statura “al bidlin” sottolineò al professor Rosina che mi aveva bocciato con un 3 carognesco perché con un 4 il consiglio dei professori avrebbe potuto aggiungere 2 voti e quindi promuovermi. E lui, Rosina, non poté che incassare trangugiando in silenzio l’amaro calice.
Mi ero dunque diplomato con una media superiore al 7 e avrei potuto chiedere all’Università la riduzione del 50 per cento delle tasse. Ma ero così frastornato dal trasferimento impostomi da nostro padre a Voghera e dalla sua disapprovazione di una mia iscrizione a Lettere moderne da trascurare quella importante agevolazione. In realtà l’ìscrizione a Giurisprudenza mi sarebbe servita, coi Diritti pubblici e altro, a formarmi una cultura utile per il giornalismo che avrei coltivato partendo dalla direzione di Ateneo Pavese alla quale mi aveva promosso come suo successore l’amico Gerardo Mombelli detto il Mentino eletto presidente nazionale dell’Unione Goliardica Italiana.
Inibito da mio padre a frequentare Lettere dove mi attirava soprattutto Lanfranco Caretti, mi dedicai al giornalismo, alle collaborazioni. Avevo scritto per Comunità di Olivetti diretta da Renzo Zorzi un articolo critico su Pavia che aveva suscitato polemiche in loco e a Milano. Il Tarozzi che scriveva bene ma faticava pochissimo mi propose di chiedere a Mario Pannunzio se potevamo collaborare con una inchiesta su Milano. Ci rispose di sì e noi andammo fra l’altro a sentire Camilla Cederna a casa sua. La quale ci propose di chiedere a Benedetti direttore de L’Espresso se potevamo realizzare con lei una inchiesta sul Nord Milano dove si addensava l’immigrazione veneta e meridionale.
Chi collaborava all’Espresso non poteva più collaborare al Mondo. Era un patto fra i due amici arrivati a Roma da Lucca, Pannunzio e Benedetti, che non volevano farsi concorrenza fra loro. A noi due interessava di più l’Espresso che aveva una maggior diffusione e che pagava di più (cosa per noi strapelati importante).
Per l’auto con cui condurre la Cederna nel Nord Milano dovemmo farci prestare una macchina dal nostro amico Vallini del Bar della Stazione a Voghera. Lui però era altrove per ragioni di lavoro e dovemmo trovarci un autista, Gianfranco Delfante detto il Giallo per il suo colorito smunto. La Giulietta verde del Beppe Vallini era stata rubata e usata dalla Banda Cesaroni per la grande rapina di Via Osoppo. Il Beppe era stato sospettato perché la Giulietta era stata rubata dai banditi e trovata parcheggiata con le chiavi inserite. Non poteva sapere il questore Agnesina che questa era un’abitudine del nostro amico, per cui lo trattenne in Questura torchiandolo a dovere per ore prima di rilasciarlo senza i lacci alle scarpe.
Il Giallo era molto emozionato e guidava un po’ a scatti con noi che da dietro gli facevamo capire che così rischiavamo di far venire il voltastomaco a Camilla. Passammo a prendere a Brera il fotografo che era il formidabile Ugo Mulas e andammo a Limbiate, poi in un altro Comune, con Camilla che con grande scrupolo intervistava immigrati e immigrate e noi (o meglio, io) che prendevamo appunti per un pezzo di inquadramento generale.
Come dio volle la trasferta si concluse positivamente e potemmo riportare Camilla a Milano in via Brera 17 sana e salva. Avremmo collaborato all’Espresso con un altro pezzo sulla sottoccupazione a Milano capitale del “miracolo”. Poi io mi sarei svincolato dal Tarozzi con un articolo choccante sullo sciopero di 72 giorni dei marittimi fermi in tutti i porti del mondo che scrissi coi formidabili materiali di telegrammi da tutti gli scali del pianeta fornitimi da un bravissimo segretario della Film-Cgil Giordano Bruschi, carrarino. Di cui divenni amico. E cominciò così la mia collaborazione all’Espresso. Fino a quando non divenne direttore del Giorno, quotidiano dell’Eni, Italo Pietra che mi propose una collaborazione prima con alcune schede sulla provincia italiana (Vigevano, Fidenza, Cesena, ecc.), poi con una grande inchiesta nazionale sui porti che durò fino alla fine di quel 1960. © RIPRODUZIONE RISERVATA