Un accordo sugli Oceani, raggiunto alle Nazioni Unite, racconta di un mondo che imparerà a proteggere – per scelta condivisa – enormi aree che diventeranno giganteschi parchi marini, forse grandi come continenti. L’entusiasmo degli ambientalisti e la soddisfazione dei governi occidentali si scontra però con una realtà che è ancora condivisa in linea di principio ma che deve articolarsi in regole e norme. Da quasi vent’anni si è cercata un’intesa, poi neanche due settimane di fitti negoziati hanno raggiunto un punto d’incontro che potrebbe diventare un punto di partenza. Una bella notizia, ma ancora non una risposta definitiva
L’analisi di FABIO MORABITO
SONO STATI DEFINITI “i colloqui più importanti di cui nessuno ha sentito parlare”. Se ne discute da quasi vent’anni, ma solo ora – sabato 4 marzo a New York – si è arrivati a un’intesa a livello delle Nazioni Unite. Si chiama “Trattato dell’Alto mare”, un’appendice concreta del documento finale della Conferenza sulla biodiversità (Cop 15) che si è tenuta a Montreal, in Canada, due mesi e mezzo prima. Riguarda uno spazio che è quasi la metà del pianeta, e cioè due terzi degli oceani (le terre emerse occupano solo il 29% del globo). “Alto mare” sono gli oceani fuori dalle acque territoriali, distanti duecentoventi miglia marine dalle coste.
La necessità era quella di trovare un’intesa per proteggere la biodiversità in questa metà del mondo. In attuazione del traguardo che si era già posto il Cop 15 con un impegno (non vincolato, come succede spesso quando si parla di tutela ambientale internazionale) a mettere in sicurezza un terzo del mare entro il 2030. Obbiettivo per il quale si è trovato ora il percorso: un’intesa avente valore giuridico, con la realizzazione di enormi parchi marini protetti e con limitazioni concordate su ricerca e sfruttamento delle risorse (mentre per ora è acqua di tutti, e i trattati esistenti sono delle intese parziali e poco coordinate).
C’è entusiasmo attorno a questo accordo. C’è fretta nel definirlo “storico” ma troppi fallimenti sono seguiti alle buone intenzioni. Anche se la consapevolezza politica che il mare sia un patrimonio al servizio della vita è già un necessario punto d’avvio. Sono gli ecosistemi degli oceani a produrre metà del fabbisogno globale di ossigeno. Contemporaneamente gli oceani assorbono circa il 25% dell’anidride carbonica prodotta dall’uomo (secondo le stime del progetto Carbochange finanziato dall’Unione europea), ma questo comporta acque più calde e più acide, che privano molti animali marini di condizioni vitali. E nel mare c’è il 95% delle forme di vita del pianeta. Un forziere saccheggiato in modo sfrenato a cominciare dalla pesca industriale; dall’estrazione mineraria in acque profonde; dalla rincorsa alle cosiddette “risorse genetiche marine”, e cioè tutto quanto – dalle alghe ai coralli – è materiale per medicinali e prodotti di bellezza. Ma anche un mondo sconosciuto: è ricorrente, perché suggestiva, l’immagine che l’uomo conosca meglio la luna degli oceani, dove vivono 230 mila specie catalogate, che sarebbero però solo poco più di un decimo di quelle che si stima ci vivano realmente.
Un trattato a livello delle Nazioni Unite – che vincoli tutti i 193 Paesi che ne fanno parte – è perciò propedeutico a qualsiasi iniziativa concreta per difendere il “pianeta acqua”, per provare a sostituire all’idea del saccheggio e dello sfruttamento intensivo quella della responsabilità. Con la possibilità di monitorare costantemente anche quelle aggressioni – come tutte le forme di inquinamento, prima di tutto i milioni di tonnellate di plastica riversate in acqua – che stanno avvelenando il mare, che è poi uno degli altri impegni in gioco. L’intesa è stata raggiunta prima di tutto a livello dei principali “attori globali”: la Cina con i 52 Paesi della Hac, “High Ambition Coalition for Nature and People”, gruppo intergovernativo nell’Onu nato per sostenere le iniziative di contrasto al cambiamento climatico, di cui fanno parte Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione europea. Quest’ultima ha promesso di finanziare con 800 milioni il progetto, di cui 40 subito disponibili per finanziare la ratifica del Trattato in tutti i Paesi, anche non europei. Chi ratifica l’intesa sarà vincolato alla tutela della biodiversità. I parchi oceanici salvaguardati verranno individuati con un voto a maggioranza.
Soddisfatte, ovviamente, le grandi organizzazioni ambientaliste, rappresentate nei negoziati. Un commento per tutti, quello di Laura Miller di Greenpeace: “Vittoria monumentale”. Rena Lee, che ha presieduto il vertice, ha annunciato con lacrime di commozione l’accordo raggiunto (“La nave ha raggiunto la riva”) . Ma al di là dei trionfalismi (Ursula von der Layen, presidente della Commissione europea: “L’oceano è cibo, energia, vita. Ha dato così tanto all’umanità: è tempo di restituire”) c’è ancora da aspettare, perché per adesso si sono ribadite le intenzioni – già enunciate alla Conferenza di Montreal – con un altro passo in più, ma non è detto che poi si riesca a dare un contenuto efficace ai principi condivisi. Ci sarà un organismo internazionale ad hoc che si occuperà del progetto. I principali nodi che si pensa di poter sciogliere sono quello legale – che dovrebbe vincolare tutti – quello delle “compensazione” a chi dovrà rinunciare a profitti permessi dalla situazione attuale, compresi i grandi interessi dei Paesi che mandano flotte per la pesca in acque lontane.
C’è nello sfondo un tema etico, quello di un accesso equo alle risorse del mare. Ma all’atto pratico ci si potrebbe scontrare su molte cose, a cominciare da chi deciderà qual è il danno ambientale di un’attività come quella di estrarre combustibili fossili. È quasi certo che le aree protette non avranno i vincoli di un normale parco marino, e l’attività dell’uomo non sarà interdetta – data la dimensione delle aree – ma sarà permessa a determinate condizioni di sostenibilità e magari con diversi livelli di tutela da zona a zona di ogni parco. E questo potrebbe comportare ampie possibilità di illeciti. La novità c’è: fino ad ora l’unica grande intesa raggiunta a livello globale è la Convenzione dell’Onu sul Diritto del mare, che risale a 41 anni fa, e concepita come trattato per superare i contenziosi. Il concetto della biodiversità era allora un’astrazione romantica. Quindi bello e “storico” l’accordo, anche se sembra ragionevole temere di essere ancora in Alto mare. © RIPRODUZIONE RISERVATA