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Ottanta anni dopo. La testa bassa, lo sguardo cupo. L’8 settembre dell’esercito italiano

di Italia Libera   
Ottanta anni dopo. La testa bassa, lo sguardo cupo. L’8 settembre dell’esercito italiano

Nel “Quaderno nero”, testimonianza di Giovanni Giovannini, c’è il diario di un soldato che racconta come ha vissuto l’8 settembre del 1943, di cui ricorre oggi l’ottantesimo anniversario. Giovannini, che nell’Italia repubblicana sarà giornalista ed editore fino a diventare presidente della Fieg e dell’Ansa, allora era caporalmaggiore in servizio nella IV Armata, nel sud della Francia. Fu internato dai nazisti perché, come peraltro centinaia di migliaia di soldati italiani, preferì mantenere fede al giuramento di militare. L’armistizio tra Italia e Alleati anglo-americani era stato firmato a Cassibile in Sicilia 5 giorni prima dell’annuncio dato da Pietro Badoglio e avrebbe dovuto mettere fine alle ostilità belliche sul territorio italiano. Prendeva corpo, invece, la furiosa reazione delle truppe tedesche, affiancate dai fascisti che daranno vita alla Repubblica-fantoccio di Salò. Comincia un’altra guerra «più difficile e cattiva» che andrà avanti per altri due dolorosissimi anni contro la Resistenza partigiana che si batte con gli Alleati anglo-americani contro l’occupazione nazi-fascista 

Quelli che seguono sono stralci dalla cronaca dell’8 settembre 1943 scritta da un caporalmaggiore, Giovanni Giovannini, che era in servizio nella IV Armata, nel Sud della Francia. Simile a tante altre nello sconcerto, nell’amarezza, nella vergogna. Eppure diversa. Quel soldato, classe 1920, scomparso nel 2008, sarebbe poi diventato giornalista, editore, scrittore, presidente storico della Federazione editori giornali (Fieg) dal 1976 al 1996 e dell’Ansa dal 1985 al 1994. Avrebbe ottenuto la Legione d’Onore dalla Repubblica francese, l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce della Repubblica Italiana e la medaglia d’argento al valor militare. La testimonianza si trova nel “Quaderno Nero”, il diario della sua prigionia nei campi di internamento in Germania dal settembre 1943 all’Aprile 1945, pubblicato nel 2004 da Scheiwiller e presentato in anteprima al Presidente Carlo Azeglio Ciampi, al Quirinale. In risposta Ciampi gli inviò un messaggio di ringraziamento parlando – scriveva il Presidente – di «quella che a me piace chiamare la resistenza allargata (…) che si manifestò in quella sorta di plebiscito, di prima votazione libera degli italiani (…) che fecero le centinaia di migliaia di nostri militari, deportati nei campi di concentramento tedeschi, preferendo, a schiacciante maggioranza, una durissima prigionia, che costò a molti di loro  la vita, pur di mantenere fede al giuramento prestato». — (c.p.)

Il racconto di GIOVANNI GIOVANNINI

APPRENDO LA NOTIZIA dell’armistizio in un piccolo ristorante italiano. Chi me la comunica è Mugnai, il proprietario. Mugnai è il prototipo dei fascisti all’estero: nella sua mente fascismo e Italia si sono confusi in una cosa sola; al punto che l’esasperazione dell’italianità provocata dal vivere in mezzo agli stranieri ha portato all’esasperazione del fascismo… Avendo sempre vissuto all’estero, ha ignorato tutte le bassezze, le vergogne, le miserie della prassi in cui quelle teorie si traducevano. Ora, nella sala deserta e semibuia, sta attonito, appoggiato a una parete. Un’espressione mista di stupore e di dolore nello sguardo. 

… Di ora in ora le notizie sono tali da inquietare anche i più ottimisti: una divisione corazzata tedesca ha preso posizione, si dice, lungo il Varo, rompendo così le nostre comunicazioni con Mentone. Ed effettivamente non si riesce a stabilire regolari contatti col Comando della IV Armata. Si comincia a nutrire sempre più forte il dubbio sul da farsi. Ma cominciano anche ad arrivare ordini precisi di restare calmi ai propri posti di combattimento.

… È tarda notte; tutto è pronto: decido di riposare per un paio di ore. Un rombo formidabile mi sveglia di lì a poco. Corro alla finestra: l’oscurità della notte è rotta dai bagliori dei fari di centinaia di automezzi. È tutto l’Autoreparto di Corpo d’Armata che da St. Valliers discende a Grasse. Che intenzioni ha il Coman do? … Attendiamo gli ordini; meglio, “l’ordine”. Poiché tutti indistintamente vegliano, il dito sul grilletto. Nessun ordine è venuto; e l’alba è ormai sorta. Mi porto al Comando; non si vedono ufficiali. E circolano brutte notizie: saremmo isolati. Quello che è certo è che i tedeschi assumono contegno sempre più ostile. L’incertezza e l’insufficienza assoluta del nostro Comando appaiono all’improvviso chiare: siamo nelle mani di gente quanto mai irresoluta. …

La situazione precipita di colpo; soldati tedeschi prendono posizione davanti all’entrata con un pezzo d’artiglieria. Altri soldati tedeschi entrano — col consenso del nostro Comando — a prendere possesso dei centralini telefonici. Che cosa sta succedendo? Interrogativi ansiosi: «Che cosa fa il Comando?», «Dove sono gli ufficiali?». Sono spariti tutti, tranne qualche subalterno che si aggira smarrito. I minuti passano, lentissimi. Finalmente, una comunicazione ufficiale: «Il Comando del I Corpo d’Armata ordina la consegna delle armi. Perché è solo a questo prezzo», chiarisce il portavoce, «che il Comando stesso è riuscito ad ottenere il rientro degli uomini in Italia».

Un tedesco avanza verso il bersagliere di guardia al cancello, lo invita a sgombrare. Il bersagliere rifiuta. L’altro insiste, conciliante: colle mani e coi gesti, gli fa capire che non c’è niente da fare. Il bersagliere rifiuta nuovamente.

… L’onta si compie. Consegnano le armi quei soldati che fino a qualche ora prima si trovavano in una psicosi combattiva, come mai si era verificato nei tre anni della guerra fascista; soldati che sicuramente avrebbero vinto o si sarebbero fatti uccidere.

Vedo ancora le armi che si ammucchiano; il rumore che fanno cadendo mi echeggia ancora nelle orecchie… Nell’incapacità e nel tradimento crolla il vecchio esercito italiano… La massa ormai è abbattuta: la testa bassa, le mani incrociate dietro la schiena, lo sguardo cupo, migliaia di individui si aggirano senza meta. I più giovani reagiscono in maniera forzata, violenta, che sa lievemente di pazzia. 

Scene disgustose all’apertura del magazzino della sussistenza. Il tanfo che esce dalle botti di vino sventrate si mescola all’odore nauseante della benzina e dell’olio degli automezzi, sabotati al gran completo dagli autisti stessi nella notte…

Il generale Calvi di Bergolo, su richiesta dei tedeschi, ordina a tutti i militari sbandati di presentarsi nelle caserme per consegnare le armi individuali o di qualsiasi altro tipo siano in loro possesso. Pochi rispondono. I più (compresi anche ex prigionieri alleati fuggiti dai campi di concentramento) cercano di rifugiarsi in campagne e montagne da dove per molti comincerà la lotta partigiana.

11 settembre. Ore 10. La truppa si è ordinata alla meglio in grossi reparti e un interprete tedesco legge in un pessimo italiano l’ultimatum del Comando tedesco. Esordisce: «Poiché per la seconda volta in trenta anni l’Italia ha tradito la Germania…». Alternative offerte: “O restare a combattere per la Germania o restare a lavorare per la Germania o essere trasportati in Germania come prigionieri di guerra”. Chi accetta di continuare a lavorare o a combattere deve presentarsi a firmare entro mezzogiorno. I rimanenti si dovranno far trovare pronti alla stessa ora per partire. I rimanenti … sono tutti o quasi!

Dal più profondo del loro essere, qualcosa si è sprigionato: un’onda di commozione li avvolge, di rabbia. Una decisione si è formata nei loro cuori, incrollabile: soffrire qualsiasi cosa ma non muovere più un dito in favore del tedesco. Chi, come me, cerca di convincere in questo senso, trova terreno facilissimo.

Ore 13. Siamo pronti. Ordinati in grossi reparti, zaino in spalla, attendiamo l’ordine di movimento. E l’ordine di movimento arriva.

Il primo reparto si avvia a passo cadenzato; arriva davanti al cancello. Gli ufficiali tedeschi guardano pensosi. Solo, in piedi, rigido nel saluto militare, ma un po’ incurvato in avanti, il capitano piange, piange davvero. Un’onda di commozione ha pervaso i soldati; ma dopo pochi passi le teste si rialzano, i petti si gonfiano, le lacrime, che inumidiscono gli occhi, scompaiono. La commozione cede il posto a un sentimento di orgoglio, che essi stessi non riescono a spiegare, che sembra assolutamente fuori posto. Ma non lo è. Per la prima volta, infatti, dopo aver sempre fatto senza sentirlo e contro voglia quanto altri imponevano; per la prima volta essi vanno incontro a una sorte che essi stessi hanno voluta e scelta. È la sorte più dura. È affrontando e quasi cercando il dolore che iniziano la loro purificazione. Andiamo a cominciare un’altra guerra.

La stazioncina, incassata ai piedi della collina di Grasse, non deve aver mai visto un treno così lungo. Sono decine e decine di carri bestiame sporchi e arroventati dal sole. Tutto attorno al recinto fa massa la popolazione francese, che gremisce anche — trepida e commossa — i costoni delle colline. E dentro, lungo i binari, i soldati vengono spinti e caricati a centinaia. Una volta dentro il vagone, proibizione di scendere per qualsiasi motivo.

Ricordo con un brivido di emozione la faccia spiritata di un ufficiale tedesco che mi corre addosso, mentre sono sceso un istante per riempire d’acqua la borraccia; la rabbia gli sprizza dagli occhi; estrae la pistola; me la punta sul petto, la stringe convulsamente: gli leggo per un attimo negli occhi chiarissima la volontà di uccidere. Per un attimo è incerto se tirare o no. At- timo breve; eterno. Poi la canna si abbassa di scatto; e con un urlo inumano, vengo scaraventato via.

Sono le quattro di quel pomeriggio domenicale quando il tre- no si avvia e il viaggio incomincia; il viaggio che durerà cinque giorni, che ci costerà le sofferenze più dure della prigionia. In- torno a me ci sono tanti giovani spauriti. Romolo, che si trova schiacciato su una mia costola, mi chiede: «sai dove si va?». «A cominciare un’altra guerra, più difficile e cattiva», rispondo.

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